Il grazie di un malato a medici e infermieri

La testimonianza di un ricoverato nel reparto Covid: «Parlerò ai miei figli dei veri supereroi»

«Voglio che si sappia quanto lavorano e ci sta aiutando questo esercito di uomini e donne in guerra»

La testimonianza di un ricoverato nel reparto Covid: «Parlerò ai miei figli dei veri supereroi»
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Pubblichiamo la testimonianza di uno dei ricoverati nel reparto Covid del Papa Giovanni. Le sue sono parole di infinita riconoscenza a tutti coloro, infermieri, medici, volontari e amici che  in questi giorni drammatici si sono preso cura di lui. (Testo raccolto e scritto da Marco Oldrati)

È una settimana che lotto, ma stanotte non ce l’ho più fatta. Grazie a Dio sono arrivati quelli del 112. «Adesso ti alziamo, tranquillo». Occhi tesi, attenti, gesti veloci, essenziali. L’ambulanza corre verso il Papa Giovanni, mi guardano e mi incitano, quasi. Mi lasciano al Pronto Soccorso, sono già propri a ripartire. «In bocca al lupo!», mi dicono. Li ringrazio.

Il Pronto soccorso è pieno di pazienti. La parola d’ordine è professionalità: il tempo che serve per ognuno, non un secondo di più non uno di meno. Esami, prelievi in qualche minuto, con la concentrazione massima e un obiettivo solo: curarmi, curarci. «Mettiti tranquillo, non è comodo, ma appena possibile ti sistemiamo meglio». Sorridono, vedo i loro occhi. «Sei in buone mani». Nelle mani del medico, giovane, ci sono le lastre: parla con calma. «Ti ricoveriamo, tampone e consenso alle cure sperimentali e poi partiamo». Firmo.
Adesso sono in un corridoio, insieme a molti altri: le facce sono scure, preoccupate, come accartocciate. Qualche anziano si lamenta... infermieri e dottori sembrano più numerosi di quelli che sono, seguono tutti, hanno attenzione per tutti. «Dai, forza!» lo sento ripetere spesso. I loro volti sono coperti, ma gli occhi brillano.« Stiamo cercando un letto, ti portiamo in reparto appena possibile». Mi proteggono anche con le parole, sanno che mi servono, dopo i giorni della malattia a casa.

È ora di cena e l’infermiera sembra in imbarazzo: «Questo è quello che posso darti», è un sacchetto, non un pasto completo e lei è quasi sul punto di scusarsi: sono qui da stamattina, adesso stanno per finire il turno. Se ne vanno, stravolte, ma prima passano a salutarci. Uno per uno. E sì, è commovente.

Mattina. C’è un letto per me. Entro in Gastro Covid. Come abbiano fatto a trovarmi in quel marasma di barelle non lo so, per tutta la notte mi sono aggrappato alla bombola con la paura che finisse, ma qualcuno arrivava - sempre e in tempo. Niente panico. È bello pensare che nessuno si dimentica di te in questa situazione di solitudine. Perché questa malattia è solitudine bastarda. Una settimana di autoisolamento per la febbre e poi... qui. Il telefono era l’unico contatto con la vita, qui no: c’è qualcuno che non ti molla, nemmeno per un istante. Il reparto è inondato dalla luce esterna. Mi posizionano in stanza con Lorenzo. Parliamo a gesti perché lui in testa ha un casco.
In pochi minuti mi spogliano e partono le verifiche. Sono calmi quasi freddi, gli occhi decisi e attenti. Mi chiedo come facciano ad essere tutti senza paura di venire contagiati. Sono protetti, è vero, ma basta un minimo errore. E invece sono qui, anche per me. Mi chiedono continuamente: «Va tutto bene? Hai bisogno di qualcosa?». Sono nel posto giusto.

È imbarazzante, ma mi tocca: due infermiere mi lavano. Lo fanno con naturalezza e la cura che una madre può avere verso un figlio. Dietro le mascherine gli occhi sono sereni. Una delle due legge il mio imbarazzo: «Stai tranquillo. Va tutto bene. Vedrai che una volta pulito starai meglio». Arrivano di nuovo i medici. Guardano i miei esami, mi fanno un ulteriore prelievo. Parlano tra loro. Si confrontano senza badare troppo a età ed esperienza. Si ascoltano l’un l’altro. Uno in particolare, Mariano, è molto attento a tutti, ma si sente il suo carisma. Ha un viso non più giovane, gli occhi scuri sono pacati e profondi. Infonde serenità, la distribuisce come se fosse un medicinale, mi fa sentire in buone mani. Deve avere grande esperienza.

La notte non è tranquilla, mi sveglio più volte. Qualche paziente urla per i dolori, il personale accorre, subito. Vedo le luci di Città Alta, il mio amato liceo, il Sarpi. Sembra un presepe. Ogni tanto le luci delle ambulanze che vanno e vengono dall’ospedale. Non vedere la vita scorrere, il mondo fermo nel tempo.
Mi risveglio di colpo. Buio e bisogno di aria. Una crisi violenta: la tosse dura minuti interi, mi taglia il fiato. Non devo nemmeno chiamare, immediatamente ci sono due infermiere vicine a me. Mi sostengono. «Stai tranquillo. Respira». Il terrore di non riuscire a farcela. «Calma e respira. Siamo qui con te». Cura e protezione. Mi calmo e torno a dormire.

Al mattino mi sveglia la voce squillante di Marianna: «Buongiorno!». Lo sguardo allegro e positivo, tre stelle tatuate sul collo, si dà da fare per mettere serenità in ogni gesto, in ogni azione. È scrupolosa e attenta e il sorriso lo vedi lo stesso anche se sta sotto la mascherina. Gli occhi parlano, come se volesse dire chiaro a tutti che ce la sta mettendo tutta, con un entusiasmo preciso verso qualsiasi compito. Ma tutto il personale è meraviglioso. I medici sono sempre presenti, a ogni ora... mi chiedo se vadano a casa ogni tanto... mi viene da domandarmi come sia la loro vita “privata” in questi giorni.

Gli infermieri non tolgono mai le tute e le protezioni. Ogni tanto scherzano, le battute? Roba da servizio militare, quando si era di guardia. Sento voci nei corridoi: «Qualcuno vuole un caffè? Non ti fermi da ore... prendi almeno un caffè». Le risposte sono sempre le stesse. «Ora non me la sento di fermarmi. Vado avanti». Turni massacranti passati a correre, ma con professionalità e tanta umanità. La "burbera" ha uno sguardo deciso, non duro… forte. È bergamasca a tutti gli effetti. Sotto quell'aspetto ruvido, quel viso intagliato nel legno che si intravede dalla mascherina... sotto deve avere un cuore. Grande. Capisci subito che se servisse ti porterebbe in braccio in Città Alta. La sua voce è secca, incita come si fa a Bergamo: «Dai! Forza!». Lo spirito del "Mola mia" incarnato in una persona.

La giornata è piatta. Nessun miglioramento, nessun peggioramento. Proseguo le terapie. Il reparto si anima. Caz... portano in terapia intensiva il mio compagno di stanza! Arrivano i medici dell’intensiva. Giovani, con uno sguardo clinico, determinato. «Andiamo a farti stare meglio». Sono sguardi di persone che calcolano, organizzano. Di chi sa bene che cosa sta facendo. A volte, qualche piccolo gesto racconta l’uomo dietro al professionista. Il medico dagli occhi cerulei appoggia una mano sulla spalla al mio compagno di stanza mentre il letto si muove. «Andiamo».

È sera: un infermiere mi si avvicina. «Che succede?». Sono un po' a terra... la mancanza dei miei bambini si sta facendo sentire. Lui mi scuote in ogni modo, cerca di farmi sorridere. Ogni volta che entra in stanza sembra il padrone del palcoscenico. E alla fine quel sorriso riesce a strapparmelo. «Ricordati: se sei felice reagisci meglio alle terapie e guarisci prima».

Faccio fatica, sono stanco e sono un po’ più in difficoltà a mettere giù le idee. Ma ci sto provando, con tutte le forze. Voglio che si sappia quanto ci sta dando dentro questa gente, questo esercito in guerra. Persone, prima che personale ospedaliero, che stanno combattendo questo virus che rischia di contagiare anche loro. Perdonatemi, a qualcuno sembrerò retorico, ma vorrei che si potesse concludere con un filo di enfasi, che renda merito, che celebri queste persone. (...)

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