Il sindaco di Albino e i giorni della pandemia: «Quella donna morta sola, col termometro in mano...»
Il primo cittadino rivive questi mesi: «Non ho mai pensato di arrendermi. Errori ne sono stati fatti, ma le indicazioni dell’Oms...». Un po' di ottimismo: «Il 2021 sarà l’anno del Moroni e della rinascita»
di Fabio Gualandris
Il sindaco di Albino, Fabio Terzi, ci racconta i giorni della pandemia e della ripartenza.
Come sta?
«Fisicamente sono sempre stato bene. Non so se sono stato in contatto col coronavirus e l’ho avuto in maniera asintomatica, sta di fatto che fin dal 23 febbraio a oggi 3 giugno non ho avuto niente, ma neanche un mal di testa o un mal di pancia. Anche mentalmente sono carico. Non lo so in futuro, prima o poi una riga andrà tirata e poi, riguardando indietro, torneranno in mente certe cose. In questo momento sono concentrato sul da fare come sindaco, ho ancora tanta adrenalina in corpo perché questa è la fase della ripartenza... con un occhio a quanto è stato, perché è appena dietro alle spalle e ogni scelta impone prudenza e guardia sempre alta».
È passato un anno dal suo trionfo elettorale, come è stato questo primo anno di secondo mandato?
«Dopo le elezioni di fine maggio 2019 pensavo a un inizio non in discesa ma più facilitato rispetto a sei anni fa. Avendo maturato una maggiore conoscenza della macchina amministrativa e non dovendo risolvere i problemi ereditati allora (ad esempio il nuovo ponte sul Serio rimasto incompleto ma da ultimare entro l’anno e problematiche relative al patto di stabilità). L’emergenza coronavirus ha invece reso questo primo anno del secondo mandato molto impegnativo, come sei anni fa».
Personalmente come ha vissuto i giorni dell’emergenza?
«Fortunatamente non ho avuto parenti che hanno contratto il Covid o che ci hanno lasciato. Ma tante persone che sono mancate le conoscevo bene, vedi il mio collaboratore Marco Belotti, uno dei responsabili comunali con cui lavoravo gomito a gomito e i tanti altri albinesi che hanno portato via un pezzettino anche di me, come Umberto Ceruti o Fabrizio Persico della coop La Fenice che ha fatto tanto ad Albino a livello sociale e culturale».
«A volte ho fatto i conti con l’impotenza nel non poter riuscire a evitare il tanto dolore che ha colpito la nostra terra, ma abbiamo cercato di fare il massimo per ostacolare l’incedere del virus. Da questo punto di vista mi sento apposto. Ci siamo buttati a capofitto in questa battaglia - fino a metà marzo ero addirittura sprovvisto di mascherina - come i nostri medici e infermieri, e abbiamo assistito a cose inimmaginabili. Tutto questo ci ha segnato e insegnato cosa veramente conta nella vita».
Autorità pubblica ma anche imprenditore e padre di famiglia, come ha saputo conciliare le diverse responsabilità?
«Come imprenditore, nel rispetto delle misure, ho dovuto chiudere. Sono mancato sicuramente come padre. Ero sempre in Comune e le mie due figlie - provate da questa situazione - le vedevo solo di sera. Ma anche a casa mi vedevano stanco e comunque impegnato. Di sera arrivava la telefonata quotidiana da Ats per il “bollettino di guerra” e altre chiamate di servizio».
Nei giorni critici cosa ha e cosa non ha funzionato?
«Sono convinto che noi sindaci abbiamo fatto del nostro meglio, oltre le nostre disponibilità. Comunicavamo: in via istituzionale con Ats per info e dati ufficiali; in via informale tra noi sindaci della media-bassa valle Seriana per coordinare scelte omogenee (ad esempio riguardo alle aperture o meno del mercato, di impianti sportivi, di uffici; o alle modalità di utilizzo del volontariato), questo soprattutto all’inizio, prima dei vari decreti».
«Su quanto non ha funzionato non punto il dito contro nessuno, la situazione emergenziale era nuova. Sono stati certamente commessi errori sia a livello governativo che regionale, ma è pur vero che se l’Istituto Superiore di Sanità, che si rifà all’Organizzazione Mondiale della Sanità, diceva “Fate tamponi soltanto ai sintomatici, non fate autopsie, non somministrate antinfiammatori”, capiamo perché l’esito è stato migliore dove sono state contravvenute le direttive OMS e fatto tamponi in massa, come in Veneto, Germania e Corea».
Ha vissuto momenti di sconforto?
«Mai, per mia natura sono ottimista».
Non ha mai pensato di mollare tutto?
«Assolutamente no, piuttosto muoio sul campo. Non fa parte della mia natura nascondermi o ritirarmi».
Quando è rinata la speranza?
«Tra fine marzo e inizio aprile mi sono reso conto che i provvedimenti presi stavano dando i primi frutti e lentamente uscivamo dall'incubo. Non consideravo i dati che mi forniva Ats sui contagi (che non rispecchiano la realtà), guardavo il numero dei decessi e dei ricoverati miei concittadini. Quando a fine marzo ho rilevato una prima decrescita ho capito che eravamo sulla strada giusta. Ricordo che nel periodo più buio in tre giorni firmai quasi trenta decessi, quando iniziai a firmarne uno o due al giorno capii che eravamo alla svolta e vidi luce in fondo al tunnel».
Un fatto curioso?
«Più che curioso ne ho in mente uno drammatico. Un sabato sera di marzo mi hanno chiamato a casa dalla stazione dei carabinieri di Clusone comunicandomi che stavano eseguendo un intervento, su segnalazione dei vicini, all'abitazione di una signora di Albino che non dava più segni di vita. Viveva con il fratello, entrambi anziani e non sposati. Il fratello era da qualche giorno ricoverato in ospedale, in terapia intensiva, per Covid. Alla fine i carabinieri riuscirono a entrare nell'abitazione trovando la signora sdraiata sul divano, morta, con in mano ancora il termometro che segnava 39 di febbre. Pensare a questa persona sola, con il fratello in ospedale, morta probabilmente per insufficienza respiratoria, mi ha scosso profondamente. Ritengo questa una delle immagini simbolo della tragedia che abbiamo vissuto: chi è morto solo, lontano dagli affetti, in casa come in ospedale».