Lo straziante racconto di Sara Invernizzi, che ha perso papà Armando e non si dà pace
È stato il primo paziente di Azzano e uno dei primi in Bergamasca. «A volte non gli davano da mangiare, il casco doveva condividerlo». Con la sorella fa parte di "Noi Denunceremo": «C’è dolore e tanta rabbia, ci chiediamo se non si poteva fare di più»
di Laura Ceresoli
«Vorrei tanto tornare indietro a trent’anni fa, quando per la prima volta ci siamo incontrati. Quando avevi così paura di prendermi in braccio perché ero talmente piccola che pensavi di farmi male con quelle tue mani così grandi. Vorrei tanto tornare a quando mi prendevi la mano e mi guidavi, con quel gesto mi trasmettevi protezione, amore, come per dirmi: “Guarda il mondo non è un posto così sicuro, ma non preoccuparti che finché ci sarò io nessuno potrà farti del male”. Però ora che tu non ci sei più, come faccio?». Sono queste le parole che Sara Invernizzi ha dedicato a suo papà Armando a poche ore dalla morte avvenuta per coronavirus. Aveva 66 anni ed era un artigiano nel pieno dell’attività lavorativa, con tre figli grandi ancora tutti in casa.
Sono trascorsi quasi tre mesi da quell'orribile giorno. Un tragico epilogo che – dice Sara – non riuscirà mai ad accettare: «Il silenzio che regna in casa si sente più prepotente che mai, ora che papà non c'è più. Perché lui era una persona allegra, piena di vita, in paese lo conoscevano tutti, aveva sempre una parola buona per chiunque. Stravedeva per me e i miei fratelli Chiara e Nicolas, e per mia mamma Monica. La sua famiglia veniva prima di tutto. Eravamo molto uniti. Anche quando era in ospedale, pur essendo spaventato e sofferente, la sua preoccupazione principale era sapere come stavamo noi. Ci chiamava spesso, finché ha potuto».
Armando Invernizzi è stato il primo paziente Covid azzanese. I sintomi si sono manifestati il 23 febbraio. Quel giorno, nonostante il malessere, aveva lavorato e si era occupato del trasloco nella nuova casa di Stezzano dove si sarebbe trasferito a breve con la famiglia. Quella febbre, all'inizio altalenante, ha però raggiunto in breve tempo picchi di 40,2 gradi. Anche la moglie Monica stava male, ma nel suo caso la temperatura non ha mai superato i 38,5 gradi ed è rientrata nel giro di qualche giorno. Le condizioni di Armando invece si sono aggravate, così la donna ha deciso di portarlo in ospedale, senza il consenso del medico. Pur con 40 di febbre, era riuscito a varcare la soglia del Papa Giovanni con le sue gambe, dimostrando fino all'ultimo grande vitalità e forza.
«L'ultima volta che ho abbracciato mio papà stavo partendo per Londra - ricorda Sara -. Mi ha stretto a sé, baciato, e mi ha detto di inviargli qualche foto. Quando sono tornata in Italia, il 28 febbraio, lui era appena stato portato al pronto soccorso. Se avessi potuto, sarei andata a trovarlo tutti i giorni, ma purtroppo le disposizioni sanitarie non lo consentivano. In quei primi cinque giorni passati in pronto soccorso regnava il caos e ho capito che quando ci telefonava e diceva che non gli davano da mangiare non era perché dovesse rimanere a digiuno, ma perché spesso gli infermieri non ne avevano il tempo. Il suo peggioramento lo apprendevamo da lui tramite telefonate e messaggi. Spesso gli toglievano il casco per darlo ad altri e per questo lui non riusciva a respirare».
Poi il 4 marzo è stato trasferito in terapia intensiva, intubato: «Abbiamo trascorso tre settimane di lockdown in una dimensione surreale, ad attendere la solita telefonata dei medici che arrivava anche alle 10 di sera - afferma Sara - qualcuno ci dava qualche speranza, altri lo davano quasi per spacciato. Dicevano che mio papà era un malato sano, ma i polmoni erano molto compromessi».
Il 27 marzo alle 10.30 è giunta l'ultima chiamata dal Papa Giovanni XXIII, quella che non avrebbero mai voluto ricevere: «Ci hanno detto che sarebbe morto nel giro di poche ore, così siamo tutti corsi in ospedale, ma era già tardi - prosegue Sara -. In sei minuti ha smesso di respirare. C'erano i segni di una trombosi nel 30 per cento dei polmoni. Quando l'ho rivisto, non era più lui. Trasfigurato, dopo quasi un mese di terapia intensiva. Sembrava invecchiato di vent'anni, era dimagrito, con la bocca spalancata. È un dolore che non passerà mai e con il quale dovremo imparare a convivere. Cinque giorni dopo la morte di papà, il 3 aprile, mio fratello minore Nicolas è diventato maggiorenne. Mia mamma gli ha comprato una piccola torta al supermercato, gli abbiamo cantato la canzoncina, ma tutto aveva un tono dimesso, carico di tristezza».
E c'erano anche Sara e la sorella Chiara tra i parenti delle vittime del coronavirus che il 10 giugno scorso si sono presentati in piazza Dante, a Bergamo, per depositare i primi cinquanta esposti per altrettante tragedie. Fanno tutti parte del comitato "Noi denunceremo - Verità e giustizia per le vittime di Covid 19", nato per un bisogno di giustizia e di verità e per dare pace ai morti che non hanno potuto avere una degna sepoltura. «Oltre al dolore - conclude Sara - proviamo tanta rabbia perché mio padre non aveva patologie pregresse, non beveva né fumava. Non è vero che muoiono solo gli anziani e coloro che soffrono di altre malattie. Di certo i medici hanno fatto tutto il possibile, ma vogliamo vederci chiaro. Forse la sfortuna di mio papà è stata quella di essere il quarto paziente Covid bergamasco che giungeva in ospedale e probabilmente è stato fatto qualche comprensibile errore nel gestire una pandemia di cui non si conosceva quasi nulla. Continuiamo a pensare cosa avremmo o non avremmo potuto fare per salvarlo. Forse le cure sono state troppo tardive, forse se non fosse stato obbligato a stare a casa per una settimana, i suoi polmoni non sarebbero arrivati a quel deterioramento e si sarebbe potuto salvare. Non eravamo preparati psicologicamente a questa fine. Mio padre non ha ancora neppure una vera lapide, al cimitero c'è solo un foglio bianco. Mia mamma cerca di farsi forza. Le è stato tolto tutto, è rimasta vedova a soli 55 anni, stavano insieme da trent'anni. Nonostante il forte dolore che proviamo, cerchiamo per quanto possibile di sorridere e di starle vicino. Di giorno lavora in una Rsa e questo la aiuta a distogliere un po' la mente dall'accaduto. Per noi è una perdita immensa e non oso immaginare quello che stia provando nostra madre a livello emotivo, ma so che cerca la forza di andare avanti per noi figli».