Carlo Magni, pianista e runner: la corsa come musica dell’anima
«Il talento è fondamentale nella musica, ma nel caso della corsa è una libertà assolutamente alla portata di tutti»

di Marco Oldrati
E il musicista che corre viaggia al ritmo di un metronomo. Carlo Magni, pianista e insegnante di scuola media, 53 anni, me lo racconta seduto al bar, con una felpa della maratona di Berlino, una maglia della Venice Marathon e una mascherina con il disegno delle corsie di una pista d’atletica. E il suo è un sorriso gioioso, quasi sornione: a Reggio Emilia, nel 2014, corre la sua maratona accompagnato dal fedele Garmin, l’alleato di tutti i corridori, in 3h 25’ 33” e l’anno dopo è di nuovo alla partenza, ma… le batterie del Garmin sono scariche e quindi non avrà la possibilità di controllare velocità, media e altro. E allora? Allora chissenefrega, dice Carlo: partiamo. E sapete quanto c’impiega? 3h 25’ e 35”. Stesso percorso? Stesso tempo, preciso come il suo idolo, no, non Abebe Bikila o Gelindo Bordin, Johann Sebastian Bach.
Già perché parliamo con un musicista che ha suonato jazz e ragtime a Berlino in un locale chiamato “Atalante”, si è esibito al Festival di Locarno, ha collaborato con Ares Tavolazzi ed Ellade Bandini (musicisti della band di Francesco Guccini ai tempi di Fra la Via Emilia e il West), con il chitarrista Franco Cerri (che molti ricordano come L’Uomo in Ammollo, nella pubblicità di un detersivo per lavatrice negli anni settanta), ha scritto l’inno dell’Atalanta, ha inciso sette dischi, ha imparato a suonare da Luigi Rossi, una specie di totem per i pianisti bergamaschi di fine millennio, era un bambino prodigio e ha l’argento vivo addosso quando parla di musica.
Ma da dove viene la passione per la corsa? Da lontano: da piccolo, molto piccolo, è per strada a Gazzaniga, suo paese d’origine, e il padre che lo accompagna gli mostra Vincenzo Guerini, un atleta come ce ne sono pochi, intriso di tradizione bergamasca per la fadiga e di classe olimpica (non è un aggettivo usato a caso, Guerini corse due volte la finale olimpica nella 4x100 a Monaco di Baviera e a Montreal con Mennea!) e da lì parte l’innamoramento per la corsa.
Come tutti gli innamoramenti ha la sua prima fase di alti e bassi. «La prima corsa che feci furono quattrocento metri intorno all’isolato di casa, dopo tre minuti ero spompato e sfatto, poi …». Poi arriva l’esperienza e l’innamoramento si trasforma in amore. Un amore ricambiato dalla valigia di ricordi straordinari di maratone corse in giro per il mondo. «Ho corso a Berlino, sotto un temporale torrenziale, a Parigi, a Venezia, a Rotterdam, a Lubiana, a Londra, ma niente è comparabile alla magia di Praga, una città che amo quasi epidermicamente vista la capacità di vederci vivi e in cammino per strada i personaggi dei romanzi di Kafka, uno dei miei autori preferiti».
Ma la musica di un pianista è anche la corsa di un “solista”, che si immerge senza cuffiette e playlist, alla ricerca dei rumori, dei colori, delle sensazioni di ogni uscita, e che da runner disciplinato e rigoroso che registra da più di vent’anni ogni allenamento, ogni percorso, ogni gara, ma non solo i chilometri e la media, anche i dolori di un momento di fatica o di sconforto o le gioie di una impresa o di uno stato di forma eccellente.
Cerchiamo di scavare più a fondo e di capire che cosa porta un talento della tastiera a spingersi sulle strade e sui sentieri alla ricerca di… « libertà (e gli brillano gli occhi mentre ce lo dice, ndr) di quel vuoto, di quel viaggio della mente che trova cittadinanza proprio nella regolarità barocca del ritmo di corsa ben temperato, come il Clavicembalo del mio amato Bach». Ma come si conquista questa libertà? «Con il talento, ma non solo: forse il talento è fondamentale nella musica, ma nel caso della corsa è una libertà alla portata di tutti, alla portata di chi ci mette passione, di chi si impegna e trova nuovi terreni da esplorare, per andare oltre i limiti».
Quali limiti? «Quelli di quei quattrocento metri corsi da ragazzino come punto di partenza per arrivare a quell’equilibrio e a quella naturalità che nel mio caso mi fa correre la prima e la seconda metà della maratona più o meno nello stesso tempo, come se i quarantadue chilometri di una maratona fossero due tempi di un concerto, con lo stesso numero di battute nello spartito».
Un pianista che è abituato a correre da solo è un po’ misantropo, direte, ma è vero fino a un certo punto: «A Praga ho corso trenta chilometri silenziosamente a fianco di uno spilungone alto due metri che sembrava quasi muto, poi mi sono rotto le scatole e gli ho rivolto la parola, abbiamo chiacchierato un po’ ma a un chilometro dal traguardo gli ho detto che lo mollavo, ne avevo ancora e me la sentivo, avevo l’occasione di fare il mio personale. Lui mi ha risposto di andare: il suo personale era due ore e quaranta e mi capiva perfettamente».
Ma il bello di tutto questo sta nel mix unico che lo genera: difficile trovare qualcosa di più anarchico e originale di un uomo radicato orgogliosamente nelle sue origini di bergamasco e senza paura della fatica e proiettato con i suoi occhi sognanti verso un traguardo indefinito fatto di altri chilometri ancora da percorrere.
Ma che senso ha fare tutta questa strada? «L’unica risposta che mi viene è nel bagaglio di flash, di immagini istantanee che porto con me da ogni corsa, gara o non gara che sia, un album fotografico ricco di una varietà straordinaria di panorami, paesaggi, volti, particolari. Correre è percorrere, incontrare, scoprire. Come la musica, la corsa parla all’anima, la rende ricca».