«Vi racconto la vera San Patrignano, che non è quella della docuserie di Netflix»
Luciana Xella è la presidente della sezione bergamasca dell’associazione Amici di San Patrignano e ci spiega come la comunità riminese sia, per molti, la salvezza: «La docufiction lascia del buio. Muccioli fu un pioniere che fece degli errori. Per aiutare i tossicodipendenti serve anche durezza»
di Andrea Rossetti
Si intitola SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano ed è la serie del momento. Distribuita da Netflix il 30 dicembre, in pochi giorni è diventato un “evento mediatico”, catturando le attenzioni di pubblico e critica. Si tratta di una docuserie in cinque episodi di circa un’ora l’uno, la prima italiana prodotta dalla piattaforma di streaming. Qualitativamente, è di alto livello, interamente basata su testimonianze e filmati d’archivio, senza voce narrante. Scritta da Gianluca Neri (che è anche produttore), Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli e diretta da Cosima Spender, SanPa racconta la storia della più grande comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa, dalla sua nascita alla morte del suo fondatore, Vincenzo Muccioli. A essere sinceri, racconta più che altro la storia di Muccioli, la sua ascesa e la sua caduta, i suoi meriti e le sue ombre. Soprattutto le ombre: i processi, le accuse per i metodi duri e talvolta violenti, l’utilizzo delle catene e delle punizioni corporali sugli ospiti. E proprio per questo la comunità ha duramente criticato la serie, definendola un «racconto sommario e parziale».
Del resto, si tratta pur sempre di intrattenimento. E, come ha sottolineato Piero Villaggio, figlio di Paolo ed ex ospite della comunità, «hanno scelto di raccontare soprattutto la cupezza. Forse perché il pubblico è morboso: preferisce la violenza, alle storie belle». Ma SanPa ha avuto anche due grandi meriti, oggettivi: aver fatto conoscere ai più giovani (dai trentenni in giù, diciamo) un pezzo di storia d’Italia che sui libri ancora non c’è e aver riaperto il dibattito non tanto su una figura affascinante, carismatica e polarizzante come Muccioli, quanto su di un tema delicato come quello delle dipendenze e della cura delle persone che ne sono afflitte.
Luciana Xella è presidente dell’associazione Amici di San Patrignano Onlus Bergamo, con sede a Nembro. Comprensibilmente, il giudizio di Xella sulla serie Netflix non è particolarmente lusinghiero: «Non discuto la qualità del prodotto, ma sottolineo come mostri solamente il lato negativo della storia della comunità. Dà tanto spazio ai processi a Muccioli, molto meno al bene che ha fatto. Lascia del buio».
Non crede che, però, sia anche un merito aver riportato alla luce quella storia? Tanti giovani, grazie a SanPa, stanno scoprendo San Patrignano.
«Questo è positivo. E sicuramente è un altro punto di vista. Ma, per me, è un po’ come quanto ti toccano la mamma: è difficile prenderla bene...».
Ci può spiegare un po’ meglio il ruolo suo e dell’associazione che presiede?
«L’associazione nasce come una realtà, presente in tutta Italia, che ha lo scopo di “portare” San Patrignano sul territorio. Siamo il primo contatto per le persone in difficoltà e le loro famiglie, quelli che avviano il percorso di coloro che vorrebbero entrare in comunità. Io presiedo la sezione bergamasca della Onlus».
In quanti siete?
«Attualmente, una cinquantina. Seguiamo tantissime famiglie, ma il percorso di recupero è duro, durissimo. Sin dalle prime battute, quelle che seguiamo noi».
Sostanzialmente, operate come una sorta di filtro?
«Sì. Avviamo il percorso di chi vorrebbe entrare. Soltanto dopo essere passati attraverso di noi si arriva ai colloqui con la comunità e, quindi, all’ingresso».
Come ha conosciuto San Patrignano?
«Mio figlio, purtroppo, era tossicodipendente. Le avevamo provate tutte, davvero: psicologo, psichiatra, Sert. Nulla funzionava. Poi, nel 2009, incontrai l’associazione che ora presiedo. I primi appuntamenti furono scioccanti, ma mi resi conto di avere davanti persone che sapevano quello che stavo provando. Il percorso di mio figlio iniziò nel 2010. E io misi le mie energie a disposizione di questa realtà».
Quanto è diversa la San Patrignano di oggi da quella raccontata nella serie?
«Ovviamente, è molto diversa. Oggi è una cooperativa guidata da un gruppo di persone, i responsabili, che hanno deciso di portare avanti la comunità per fare in modo che altre persone potessero riabilitarsi, uscire dalle dipendenze come fecero loro».
Cos’è rimasto di Muccioli?
«Dal punto di vista valoriale, tanto. A San Patrignano vigono ancora regole molto rigide. Il rispetto di queste è alla base di tutto. Certo, le catene non ci sono più; nessuno è più obbligato a restare. Ma i responsabili fanno di tutto perché chi entra porti a termine il suo percorso, che dura mediamente tre anni».
All’epoca dei fatti narrati dalla serie, lei non era ancora entrata in contatto con la comunità. Ricorda cosa pensava, allora, di Muccioli e di San Patrignano?
«Mio padre è di Lugo di Romagna, non poi così lontano da Rimini. Quindi conoscevo San Patrignano, sapevo cos’era. E ricordo che, quando uscì la storia dell’utilizzo delle catene nella comunità, mi schierai con Muccioli. Pensai che fosse l’unico modo per aiutare quelle persone. Perché vedevo gli effetti della droga attorno a me, avevo amici che erano morti per colpa dell’eroina».
Quell’idea l’ha poi cambiata?
«No. Anzi, da madre di tossicodipendente non nego di aver pensato di fare anche ben di peggio che utilizzare delle catene... È la disperazione che si prova in quelle situazioni».
Cosa pensa di Muccioli?
«Che fu un pioniere. Allora, delle droghe non si sapeva praticamente nulla. Non c’erano protocolli, nessuno si occupava dei tossicodipendenti. Muccioli fece sicuramente degli errori, era forse troppo rigido, sbagliò certamente, ma aprì anche una breccia, una strada. Negli anni Settanta e Ottanta, nessuno voleva quelle persone, lui invece aprì loro le porte di casa. E in lui vedo davvero un uomo che, in fondo, s’è comportato come un padre. Per questo dico che i suoi valori sono rimasti. Per il resto, tutto si è evoluto e i tempi sono cambiati».