Alà, cór!

Il peggior nemico del corridore? L’infortunio (quello vero, però)

L’aspetto più delicato non è fisico, bensì psicologico, e qui c’è da divertirsi: il runner infortunato è poliedrico

Il peggior nemico del corridore? L’infortunio (quello vero, però)
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Di Marco Oldrati

Il corridore ha anche dei nemici, alcuni degni di menzione, come il freddo, la neve, la pioggia, altri “risibili”, ma pericolosetti come la pigrizia, il sovrappeso, il caldo, ma quello che di sicuro fa più paura di tutti ha un nome da incubo, si chiama infortunio (fisico).

Però attenzione: per parlare “seriamente” (...) dell’argomento isoliamo quelli che “usano” l’alibi dell’infortunio per coprire il proprio reato più grave, l’ignavia. Quanti ne avrete sentiti che dicono «mi piacerebbe, ma ho un doloretto di qui, uno strappetto di là».

La risposta normalmente è un “mochela” forte come i battiti del Campanone alle dieci di sera, ma non sempre son balle, anzi, purtroppo anche il corridore non è una divinità, come la Dea Atalanta che corre senza paura sui campi d’Italia e d’Europa, quindi ogni tanto gli tocca fermarsi.

Motivi? I più vari - e ne parleremo una prossima volta con un medico, tanto per non farci mancare niente - ma di solito circoscrivibili in aree precise. La prima è l’affaticamento da superallenamento: nel mancato dosaggio e nell’eccesso di entusiasmo di un neofita o di chi si trova in forma sta il narcisismo di tirare come se non ci fosse un domani e che cosa succede poi? Crollo. Non ne parlo da scienziato, ma da uno che ci è passato: gasato dal fatto di tener dietro a gente che viaggiava più forte di me mi sono trovato addirittura a fare un fine settimana con la febbre da stanchezza.

La seconda area è una parte del corpo, i legamenti e le articolazioni: le scarpe un po’ “lise” e non sufficientemente ammortizzanti, un appoggio scorretto del piede a terra o semplicemente anche qui l’eccesso di chilometri portano ad avere i giunti cardanici doloranti come se non fossero stati oliati dal millennio scorso. E qui viene l’angoscia, della lesione o della rottura, da “curare” con esami e visite.

La schiena è il terzo bersaglio di questa “sfiga” chiamata infortunio: soprattutto soggetti un po’ sovrappeso si trovano in crisi perché i muscoli lombari non reggono, dovrebbero essere aiutati dagli addominali, ma vai tu a pensare che serve fare gli addominali per correre...

Ma l’aspetto più delicato dell’infortunio non è quello fisico, bensì quello psicologico e qui c’è da divertirsi: il runner infortunato è poliedrico, multiforme ma soprattutto melodrammatico. C’è quello che dice che non correrà mai più, come se la colpa fosse dell’idea platonica della corsa e non dei suoi errori nel praticarla, c’è chi si dà al ciclismo e guarda i corridori con un’invidia come un cinquantenne guarda due adolescenti che limonano, chi si butta nella terapia e nella fisioterapia passando di mano in mano e non risolvendo il problema, chi si stende sul divano controllando che il telecomando sia a portata di mano, chi smadonna in farmacia alla ricerca dell’antidolorifico più efficace… insomma, un’umanità in cerca di un modo per reinfilare le scarpette e ripartire.

E per dirla tutta l’infortunio è anche un’elegante forma di scusa buona per spiegare una cattiva prestazione o (peggio ancora) per incrementare le speranze dei rivali in gara: quante volte prima della partenza di una gara, corta o lunga che sia, ci siamo sentiti dire che «non è giornata», «ho il piriforme infiammato», «ho avuto una tendinite nelle ultime due settimane». Che sia vero o no, quello che ci viene raccontato lo scopriamo pochi secondi dopo la partenza: se il potenziale “ammalato” ti schizza via fin dai primi metri sono tutte balle, la tendinite l’aveva avuta nello scorso millennio.

La parte più esilarante però è quella social: l’infortunio del runner è un vero e proprio trend topic, un ashtag che nemmeno un gol di Ilicic. La prima fase è quella dell’annuncio, un grido di dolore come quello dei lombardi a cui porse l’orecchio Vittorio Emanuele II, che viene raccolto dal pueblo della chat con lai e pianti compassionevoli, qualche volta sensati perché l’incidente è serio e delicato, qualche altra volta simili a quelli delle prefiche a pagamento dei funerali in meridione.

Segue un momento di “riflessione” in cui parte la fase diagnosi (o gnagnosi...) telematica sulla base dei sintomi: qualche volta la gnagnosi si riduce giustamente a «smettila di gozzovigliare il sabato sera se vuoi evitare di fare una fatica porca la domenica mattina», qualche altra volta entra in particolari che forse nemmeno una Tac permetterebbe. E poi parte la sagra dei consigli terapeutici, creme, massaggi, acido ialuronico, fasce, pannicelli caldi, tisane, insomma, di tutto di più.

Certo, la maggior parte dei consigli sono dati in buona fede, alcuni sono anche documentati sulla base di esperienze analoghe, ma diagnosi e terapia sono argomenti davvero importanti, che è opportuno riservare a chi è documentato tecnicamente e professionalmente.

E il momento più epico è comunque quello del ritorno all’attività: nemmeno un calciatore dopo aver rotto il menisco è follemente felice come il corridore che rientra in attività, è un momento che somiglia ad un parto, ad un giorno di sole dopo un mese di monsoni. Il bambino runner ritrova il suo giocattolo, l’aria aperta e il vento in faccia e torna nuovo come mamma l’ha fatto.

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