Angelo Vescovi

Lo scienziato bergamasco che parla con le cellule e che ordina loro di sconfiggere il cancro

Nato a Romano, è un biologo di fama internazionale. Grazie alle sue ricerche sulle staminali si sono scoperte nuove possibilità di cura per malattie considerate inguaribili. Lavora tra Milano e San Giovanni Rotondo

Lo scienziato bergamasco che parla con le cellule e che ordina loro di sconfiggere il cancro
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di Paolo Aresi

Angelo Vescovi è un biologo di fama mondiale nato nel 1962 a Romano di Lombardia. A inizio anni Novanta in Canada, insieme a due medici, scoprì l’esistenza di cellule staminali neurali, fino a quel momento sconosciute. Vescovi portò avanti gli studi anche in Italia, convinto che la scoperta potesse essere decisiva nella cura del Parkinson e di altre malattie neurodegenerative. Nel 1996 scoprì un metodo per isolare e coltivare cellule staminali nel cervello umano. Nel 2012 ha effettuato il primo trapianto di cellule staminali cerebrali umane, nel 2015 ha operato, sempre nella fase sperimentale, il diciottesimo e ultimo paziente colpito da Sla.

Nel 2018 ha avviato i trapianti su pazienti affetti da Sclerosi multipla secondaria progressiva, sempre con cellule staminali cerebrali umane. Sempre nel 2018 un altro passo avanti con la realizzazione di dispositivi per inoculare le cellule staminali nel midollo spinale dei pazienti. Gli interventi vennero effettuati tra marzo e maggio 2020 in pieno Covid, con ottimi risultati.

Angelo Vescovi è tra i non molti ricercatori che hanno aperto la via a nuove conoscenze e che al contempo hanno ricercato un’applicazione concreta delle scoperte effettuate. Nel 2006 ha realizzato a Terni il Laboratorio cellule staminali con relativa bio banca per la produzione e la conservazione delle cellule. Insegna Biologia cellulare all’università Bicocca di Milano ed è direttore scientifico della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (dove è stata creata una seconda banca delle staminali) e dell’istituto Css-Mendel di Roma. In questa intervista, Vescovi parla delle sue scoperte.

È vero che lei parla con le cellule dell’organismo?

«In un certo senso».

Perché, le cellule del corpo umano parlano?

«In un certo senso, sì».

Si spieghi.

«Le cellule trasmettono a tutte le altre dei segnali chimici che dicono quello che bisogna o non bisogna fare. Nei nostri studi, ci siamo resi conto che le cellule staminali si trasformano in un tipo di cellula o in un altro a secondo dei segnali che colgono dall’ambiente, cioè dall’organismo. Allora noi abbiamo individuato, decodificato, tanti di questi segnali biochimici. Mandando verso i recettori, specie di antenne della cellula, una certa proteina, per dire, vediamo la staminale diventare un neurone piuttosto che un’altra cellula del cervello, tipo gli astrociti o gli oligodendrociti».

Lei parla con le cellule.

«Va be’, sì, faccio anche un corso all’università che si chiama “Comunicazione intercellulare” all’università Bicocca di Milano. Parliamo anche alle cellule tumorali».

Che cosa significa?

«Abbiamo individuato dei segnali biochimici specifici che dicono alle cellule tumorali di fermarsi, per esempio a quelle del glioblastoma, un tumore del cervello per il quale non c’è cura. Abbiamo scoperto che esiste un segnale chimico, chiamato WNT5a che dice alle cellule tumorali: invadete il cervello. Noi abbiamo trovato una sostanza, un peptile che si chiama PEP-A, praticamente un frammento di proteina, che va alle cellula tumorali e ne blocca i recettori. Così il segnale di invasione, il WNT5a viene bloccato. Interveniamo con altri “messaggi” anche su tumori diversi. Abbiamo effettuato a ottobre la fase 1 della sperimentazione su persone affette da glioblastoma, i risultati sono stati ottimi, due pazienti sono completamente guariti. Adesso passiamo alla fase 2, su 250 pazienti. Per questo lavoro occorrono 25 milioni di euro. Li sto cercando, ne abbiamo urgente bisogno».

Lei sta dicendo che “parlando” alle cellule tumorali lei può sconfiggere il cancro.

«Abbiamo già cominciato a farlo. È un approccio nuovo e lascia disorientati tanti miei colleghi. Ma abbiamo il dovere di andare avanti su questa strada».

Torniamo alle staminali, è vero che possono diventare anche neuroni? Ma le cellule del cervello non restano le stesse dalla nascita fino alla morte?

«Questo si credeva fino al 1989, quando per la prima volta in un articolo scientifico si avanzò l’ipotesi che invece anche le cellule del cervello potessero rinnovarsi e che quelle danneggiate potessero venire sostituite. Ma nessuno ci credeva, sembrava un azzardo. Io ero giovane, avevo ventisei anni. Per questo presi la cosa sul serio».

Ricominciamo da capo. Lei è nato a Romano di Lombardia.

«Sì, sono bergamasco, piuttosto orgoglioso di esserlo. Sono testardo e questo mi è servito molto nelle ricerche. Mio papà era un artigiano che lavorava il peltro, l’ottone, l’argento; mia madre stava a casa. Ci trasferimmo a Milano e io frequentai il decimo Itis, in piazza Stuparich, istituto tecnico industriale, indirizzo chimico. Soltanto che io ebbi una fortuna sfacciata. Quello era l’ultimo degli Itis di Milano e proprio quando io andai in quarta dal ministero arrivarono tutti i macchinari che servivano a un istituto per chimici, tutti nuovissimi e all’avanguardia. Così io diventai un tecnico di laboratorio di prim’ordine. Avevamo, ad esempio, il forno di grafite, che si usa per la spettroscopia dell’assorbimento atomico. Finito l’Itis, andai a lavorare in fabbrica».

In fabbrica?

«Sì, andai a fare l’operaio perché a casa serviva un aiuto. Andai in una fabbrica dove si spessoravano le lamiere. Un lavoro monotono, di una noia mortale. Stavo a infilare lamiere in una macchina tutto il giorno, lamiere sottili che mi tagliavano in continuazione, ho ancora le mani rovinate. Però quella esperienza in fabbrica fu una grande spinta per continuare a studiare. E studiai biologia alla sera, alla statale di Milano».

E quindi?

«E quindi devo ringraziare mia zia suora che era all’istituto Besta e che capì che un suo medico aveva bisogno di un aiuto, di un tecnico. Così lasciai la fabbrica e andai a lavorare come precario, tecnico al Besta. Mi pagavano ogni tanto, a gettone, ma comunque guadagnavo qualcosa per la famiglia. Io sapevo usare i macchinari nuovi dell’istituto neurologico, per esempio usavo i gascromatografi, conoscevo bene la teoria degli errori... insomma, ero davvero all’altezza della situazione grazie al mio Itis. La fortuna volle che la facoltà di Biologia fosse dall’altra parte della strada, accanto al Besta. Così riuscii a conciliare studio e lavoro e mi laureai per tempo. Ricordo che nel 1982 pubblicai il mio primo articolo, sulla cefalea, e che in quel periodo studiai un programma per eliminare i resti di farmaci dal sangue».

Lei si concentrò soprattutto sul morbo di Parkinson, giusto?

«Giusto. Analizzavo i recettori delle cellule cerebrali, cioè le loro “antenne”, volevo capire che cosa accadeva, perché quelle cellule cerebrali morivano. Mi innamorai del tema delle malattie neurodegenerative, quelle malattie dove i neuroni si ammalano, si spengono: Parkinson, Sla, Sclerosi multipla... Cominciai a interessarmi al funzionamento del cervello, a studiare i primi modelli sperimentali del Parkinson. E proprio su questo ho fatto la tesi di laurea».

Poi arrivò quel giorno del 1989 in cui lesse l’articolo che ipotizzava che le cellule del cervello potevano anche rigenerarsi.

«Sì, e mi entusiasmai. Era un’eresia e io ero diventato un eretico. In quel periodo una ricercatrice, Sally Temple, scrisse un articolo su Nature in cui spiegava di avere individuato il modo per controllare lo sviluppo delle cellule cerebrali “progenitrici” negli embrioni dei topi: fu un altro forte stimolo. Nel 1990 io dovevo andare a Georgetown per via di una borsa di studio. Poco prima c’era un congresso di neurologia a Phoenix e io passai di là anche perché dovevo vedere un amico: lo incontrai e lui mi presentò un medico canadese e mi disse che stava cercando un “post doc”, oggi diremmo un dottorato di ricerca. Si chiamava Samuel Weiss, mi disse che stava lavorando sulla moltiplicazione delle cellule cerebrali. Io avevo già per la testa l’idea del trapianto di cellule cerebrali nei malati di Parkinson. Così non andai a Georgetown. Presi l’aereo a Phoenix, volai a New York, dormii alla stazione, presi il treno per Toronto e poi un altro volo per Calgary, dove lavorava Sam Weiss. Weiss studiava il cervello del bambino in fase fetale, io scrissi un progetto per estendere la tecnica al cervello adulto. Volevo capire se quelle cellule cerebrali che si moltiplicavano nei feti, esistevano anche nel cervello degli adulti. Il Besta mi diede un finanziamento e mi buttai nella ricerca con Weiss e con un altro post doc come me, Brent Reynolds».

E le ha trovate queste cellule?

«Sì, le trovammo, trovammo queste cellule che si moltiplicavano e capimmo che avevano caratteristiche tipiche delle cellule staminali che trovavamo nel sangue. A quel tempo, nemmeno noi pensavamo di trovare le staminali nel cervello. Nel 1992 e nel 1993 scrivemmo i primi articoli. Facevamo le fotografie a queste cellule con i microscopi e i rullini... Riuscimmo a fotografare tutta la sequenza, si vedeva la staminale che si trasformava e si moltiplicava, nel cervello, diventava neurone, astrocite e oligodendrocite. E di più: scoprimmo i fattori che determinavano l’evoluzione nell’una o nell’altra cellula. Avevamo compreso il linguaggio delle staminali: esisteva una proteina, la FGF, che “diceva” alle cellule del cervello di riprodursi».

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