L'uomo che sopravvise alla Shoah al cancro e all'uragano Sandy
[In copertina: Morris Sorid è il primo a sinistra]
Morris Sorid aveva 101 anni e una storia incredibile alle spalle. Era sopravvissuto alla Shoah, a un tumore al retto del colon e, da ultimo, anche all’uragano Sandy, che aveva colpito gli Stati Uniti nel 2012. Viveva in una casa di cura nel Queens, a New York. Aveva due figli, nipoti e cinque bisnipoti. Nell’ottobre di due anni fa, mentre il vento e le piogge impetuose assediavano senza sosta la città, Morris aveva dovuto lasciare la sua camera e trasferirsi nella biblioteca della struttura, perché ritenuta più sicura. Cercò di mettersi subito in contatto con i due figli, Harvey e Victor, per sapere se stavano bene. Il suo infermiere, Archie Catacutan lo rassicurò, garantendogli che erano entrambi in salvo. Tuttavia, anziché rasserenarsi, il signor Sorid aveva cominciato a preoccuparsi per l’uomo che condivideva con lui la stanza. Gli aveva dato la coperta e si era offerto di lasciargli il letto. Essendo accanto al muro, sarebbe stato più riparato.
Ricordava quasi con spavalderia quei drammatici momenti. Al giornalista del NY Daily News che lo ha intervistato nel 2012, un anno prima della sua morte, dichiarava: «A dirti la verità, l’uragano non mi ha entusiasmato più di tanto». Non facciamo fatica ad immaginarcelo mentre lo diceva, con una lieve alzata di spalla e un sorriso agli angoli della bocca. Dopo tutto, Morris Sorid era stato quasi «distrutto sei o sette volte» nella sua vita. Non sarebbe certo bastato un uragano, per metterlo fuori gioco.
Nato in Polonia, a Pruzany (oggi Bielorussia), prima di diventare Morris Sorid si chiamava Moshe Yudewitzin e si guadagnava da vivere come educatore. Quando Hitler salì al potere in Germania, lui viveva ancora nel suo paese natale, insieme alla moglie, Regina, e alla figlia, Tsveeyah. Nel 1939, come sappiamo, i nazisti invasero la Polonia, rastrellarono i 10 mila cittadini ebrei e li confinarono nei ghetti. Tre anni più tardi, sarebbe cominciata la deportazione nei campi di concentramento.
Morris Sorid e la moglie furono avvertiti che la situazione sarebbe ben presto precipitata. Messi sull’avviso anche dalle sparizioni di conoscenti a cui non avevano saputo dare una giustificazione, decisero di lasciare la figlia, che allora aveva cinque anni, insieme ai nonni, mentre loro due si sarebbero nascosti in un bunker sotto la casa. Dopo 18 giorni lasciarono il loro rifugio e vennero accolti da un contadino cattolico, che rischiò la vita pur di salvarli. Poco dopo, si inoltrarono nella foresta di Bilaloviez. Vagarono per circa una settimana, finché si imbatterono in una brigata dell'esercito russo, tra le cui fila vennero accolti. Regina era una levatrice e si diede da fare per curare i soldati malati e feriti; il marito, invece, partecipò ad alcune azioni militari di resistenza. Nel luglio 1944 uscirono dalla foresta e dopo due mesi Regina partorì un bambino: lo chiamarono Victor, per celebrare la loro liberazione. Ce l'avevano fatta, erano vivi.
Poco tempo dopo la fine della guerra, vennero a sapere che la figlia che avevano affidato alle cure dei nonni era morta insieme al resto della famiglia, ad Auschwitz. Sorid ricorda che lui e la moglie avevano il cuore spezzato, ma erano decisi a costruire una nuova esistenza. Così, nel 1948, emigrarono in America, stanziandosi a Brooklyn, New York. Quello sarebbe stato il luogo in cui avrebbero potuto ricominciare a vivere, insieme a Victor e all'altro figlio, Harvey. Una volta giunti a destinazione, Yudewitzin cambiò il proprio cognome in Sorid (variazione della parola ebrea Sarad, sopravvissuto). Cominciò a lavorare come camionista, poi come commerciante. Infine, si impiegò come autista di taxi.
Sorid ha vissuto per molto, molto tempo, rendendo onore al cognome che ha voluto assumere per iniziare la sua nuova vita in America. A 95 anni ha scritto persino un libro di memorie, Un miracolo in più. Purtroppo nel gennaio 2013, poco dopo il suo 102esimo compleanno, ha deciso che era giunta l'ora di accomiatarsi dalla sua famiglia, prendere la valigia e imbarcarsi per un altro viaggio.