Dalle minoranze Pd a Berlusconi

La quiete dopo la tempesta, ovvero situazione politica post Mattarella

La quiete dopo la tempesta, ovvero situazione politica post Mattarella
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La quiete dopo la tempesta: è così che potrebbe essere etichettato questo lunedì 2 febbraio, così tranquillo dopo la burrasca del fine settimana quirinalizio. La cronaca dei fatti è nota a tutti: Sergio Mattarella eletto Presidente della Repubblica in seguito a colpi di scena e drammi politici che non animavano la vita della cosa pubblica italiana da diverso tempo. Naturalmente, sono state affinate molteplici teorie rispetto al pre - ma soprattutto al post - elezione del Capo dello Stato: i rapporti fra Renzi e Berlusconi sono un grande punto di domanda, quelli fra il Premier e le minoranze del suo partito tanto quanto, al pari delle alleanze di Governo che lo stesso Matteo ha stretto meno di un anno fa.

In effetti, che tutte le questioni siano riconducibili proprio a Renzi dice molto dell’imprevedibilità del leader Pd, che ha saputo mescolare e rimescolare i rapporti politici vigenti come con un mazzo di carte di cui lui è il croupier che conosce ogni carta per filo e per segno. E allora si parla di tre alleanze diverse, una con Forza Italia per le riforme, una con il resto del Pd per il Quirinale, e una con Ncd per governare, roba da equilibristi di professione. Nel tentativo di spiegare l’oggi e dispiegare il domani, ci sono però alcuni aspetti che vanno considerati.

 

 

I rapporti con le minoranze Pd. Si fa un gran parlare della rinnovata compattezza del Partito democratico, che ha visto nella vicenda Mattarella un nuovo e, a quanto pare, solidissimo collante interno. C’è anche chi potrebbe giurare che, da un punto di vista dell’azione di Governo, le minoranze dem possano trovare una nuova e marcata rilevanza. Chissà. A ben vedere, però, è una cosa piuttosto improbabile: non è un mistero che molta dell’avversione che, fino a tre giorni fa, parecchie componenti del Pd covavano nei confronti di Renzi era dovuta a decisioni politiche, puntualmente tradotte in leggi, prese dal Premier. L’abolizione dell’articolo 18, le mosse nei confronti delle banche popolari, alcune scelte in sede di Italicum, l’aperta lotta ai sindacati, tutte cose che ai più integerrimi elementi della sinistra italiana hanno fatto andare Renzi più che di traverso. D’altra parte, è proprio in questa ortodossia e purezza dei crismi socialisti che le minoranze interne al Pd trovano oggi l’unica ragion d’essere, l’unica legittimazione agli occhi, soprattutto, dell’elettorato.

Com’è dunque possibile che due mondi così separati possano, da un giorno all’altro, ritrovare feeling e comunanza di vedute solamente perché si son trovati d’accordo rispetto al nome da portare al Quirinale? Significherebbe o per Renzi sbugiardare un anno di lavoro, di proclami e, perché no, di fatti anche, in nome di un maggior consenso fra le proprie fila, oppure, al contrario, per gli ultimi difensori dei valori prettamente democratici e sinistri (non si pensi male) smentire il proprio credo (che, come detto, è anche l’ultima ragion d’essere) giusto per aver l’opportunità di poter dire la propria, che di proprio avrebbe ben poco, in sede di riforme. Difficile, in entrambi i casi, è dir poco. Certo, Renzi è stato magistrale su Mattarella: chi avrebbe mai potuto dire “no” a un profilo del genere, così elevato, istituzionalmente esperto, nonché coinvolto, in qualità di vittima, nelle pagine peggiori della storia repubblicana? I dissidenti Pd hanno gradito per forza di cose la candidatura, illudendosi che presagisse un riorientamento della bussola renziana. Ma così, per quanto detto, proprio non può essere: semplicemente il Premier si è assicurato una buona fetta di voti per l’elezione del Presidente.

 

 

L’imbarazzo dell’Ncd. Con chi governerà allora Matteo? Esattamente con chi lo faceva fino ad una settimana fa, ovvero quell’Ncd che fin da subito moriva dalla voglia di scrivere “Mattarella” negli angusti catafalchi di Montecitorio. Eppure, non lo faceva. La risposta, chissà, potrebbe essere nelle elezioni regionali di questa primavera: a maggio, infatti, Liguria, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia saranno chiamate a rinnovare i propri governatorati, insieme a molti Comuni, ed Ncd, come già annunciato, correrà insieme a Forza Italia. Il partito di Alfano è in bilico, già da diverso tempo, fra la vita e la morte, e fra i popolari è chiara l’importanza di radicarsi quanto più possibile sul territorio per tentare di creare una solida base di elettorato.

Ora, stante tutto questo, è assolutamente immaginabile l’imbarazzo in cui Alfano e i suoi si siano trovati rispetto alla candidatura di Mattarella: dire “sì” avrebbe significato uno sgarbo ai colleghi di Forza Italia, con possibili ripercussioni proprio sulle alleanza in sede di regionali (senz’altro nefaste per Ncd), mentre dire “no” sarebbe stato altrettanto sconveniente nei confronti del dominus di Governo, il Pd. Tant’è che, curiosamente, i popolari hanno deciso di votare Mattarella solo nel momento in cui in Forza Italia è stata diramata la direttiva di votare scheda bianca in quarta votazione, ovvero una sorta di dichiarazione di non belligeranza. Alfano e i suoi si sono allora, e finalmente, sentiti liberi di votare con serenità. Una dinamica che certifica la sostanziale vicinanza al governo Renzi, anche perché, in caso di cessazione di alleanza e quindi possibile crollo del Governo, il voto anticipato si presenterebbe ad Ncd con mantello nero e falce già affilata.

 

 

E infine, il Nazareno. Questo è senz’altro il tema più scottante: il rapporto con Berlusconi. «Non è il nome il problema, ma il metodo», è stata questa l’affermazione più inflazionata negli ambienti azzurri durante i giorni quirinalizi, come a dire, Mattarella va benissimo, ma come è stato proposto assolutamente no. Una giustificazione un po’ debole. Occorre riflettere sul nome che Berlusconi e i nazareni vari avrebbero tanto voluto condividere con Renzi, ovvero Giuliano Amato: un uomo di sinistra vero, ma comunque ben visto da Forza Italia quel tanto che basta per accettare di portarlo al Colle. Il secondo fine è chiaro: Amato sarebbe stato un nome profondamente divisivo all’interno del Pd, con più e più fazioni che difficilmente avrebbero accettato la sua candidatura, così da costringere Renzi a fare totalmente affidamento sui voti azzurri per vincere la partita del Quirinale, conferendo al Patto del Nazareno, e quindi a Berlusconi, un ruolo ancor più primario nella vita politica italiana.

E invece no, è arrivato il nome di Mattarella, assolutamente perfetto (secondo quanto già detto), tanto perfetto da non permettere a Forza Italia di dire espressamente “no”. Eppure, un nome che ha fatto saltare tutti i piani. Ora, come si sono successivamente svolte le cose è noto, ma occorre chiarire come a Forza Italia non convenga affatto mollare Renzi e mandare tutto all’aria, per un semplice motivo: il Premier ha un’arma, a doppio taglio, vero, ma che alla fine è tutta a suo vantaggio, ovvero il voto anticipato. Trattasi di un’eventualità che allo stesso leader Pd non piace affatto (ne andrebbe della sua credibilità anzitutto internazionale), ma che può comunque permettersi di minacciare, poiché, qualora oggi si votasse, l’esito sarebbe piuttosto scontato. Ecco perché Berlusconi, per semplice istinto di sopravvivenza, continuerà a fare le riforme con Renzi, essendo l’unico modo che, oggi, gli garantisce una posizione forse non di primo, ma sicuramente almeno di secondo piano sulla scena politica.

Per concludere, quindi, Renzi continuerà a governare con Ncd, appoggiato dai voti di Berlusconi su riforme istituzionali, Italicum e chissà cos’altro, il tutto con buona pace delle minoranze Pd. Come disse Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel celebre Gattopardo, «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

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