I dieci anni dell'ospedale Papa Giovanni di Bergamo: le interviste ai protagonisti
L'allora direttore generale Carlo Nicora: «Partì in sordina e nessuno lo inaugurò». Parlano Bonometti, Salmoiraghi, Chiappa e Sileo
di Ettore Ongis
Il 15 dicembre 2012 nacque il Papa Giovanni. Quel giorno cominciò il trasloco che avrebbe portato il più grande ospedale bergamasco dalla storica sede dei Riuniti, in largo Barozzi, alla Trucca. Il trasferimento durò sei giorni e fu uno degli eventi più importanti della storia recente di Bergamo. Nevicava forte quel 15 dicembre, ma i convogli non si fermarono e il passaggio avvenne quasi in silenzio.
Dieci anni dopo quella data, l’ospedale ha voluto ripercorrere quei momenti con un convegno nell’auditorium Parenzan. In platea, in ascolto, c’erano tutti i protagonisti di quella stagione. Noi abbiamo voluto farli parlare, uno per uno, privilegiando direttori generali e direttori sanitari. Ognuno ricorda con orgoglio il grande lavoro compiuto, a partire dagli Anni Novanta, che ha dato a Bergamo uno dei migliori ospedali italiani.
Non è facile fare un ospedale nuovo. E Carlo Nicora, il direttore generale che ha varato il Papa Giovanni, lo sa bene. Dice: «Cito a memoria: la trincea drenante, la questione dei vetri, le infiltrazioni, il contenzioso per il mancato pagamento dei subappaltatori, la causa intentata all’azienda costruttrice, la Dec... Sembrava di non venirne fuori».
Direttore sanitario del Niguarda, nel 2010 le autorità regionali lo fecero salire di grado e Nicora venne inviato a Bergamo per concludere la grande opera. «È stata un’esperienza vissuta insieme a tante persone - afferma - ed è profondamente parte di noi. Sono stati momenti faticosi ma entusiasmanti». Oggi Carlo Nicora è direttore generale dell’Istituto dei tumori di Milano.
Dottore, torniamo a dodici anni fa, al suo arrivo a Bergamo.
«Era la mia prima esperienza da direttore generale. Da solo non avrei potuto fare niente. Ho concluso una grande opera preparata da altri, a partire da Antonio Bonaldi e Marco Salmoiraghi, che hanno avuto un grandissimo ruolo nel pensare e nel progettare il Papa Giovanni, insieme all’architetto Aymeric Zublena. Da subito ho sperimentato sul campo che cosa volesse dire far parte di una squadra di eccellenza. Ai Riuniti ho trovato gente molto preparata, alcune criticità e un’altissima aspettativa da parte della città, che attendeva l’apertura dell’ospedale già nel novembre del 2009».
Lei si è insediato a gennaio 2010.
«Ci sono voluti due anni per finire tutto quello che c’era da finire, sono sempre affiancato dalla Regione e dalla politica locale. Ed è stato subito chiaro a me e a chi mi stava a fianco - il direttore amministrativo Peter Assembergs, il direttore sanitario Laura Chiappa, Fabio Pezzoli e gli ingegneri - che non avremmo potuto attendere che le cose accadessero: avremmo dovuto farle accadere noi, qualche volta rischiando anche sul piano personale...».
In effetti, lei è stato anche inquisito.
«Ho ricevuto due avvisi di garanzia, archiviati dopo sei anni».
Quali difficoltà ha incontrato in quei due anni?
«Oltre a quelle che ho citato, l’aver dovuto subentrare come azienda ospedaliera per portare a termine lavori che avrebbero dovuto già essere conclusi. È stato un sesto grado, direi. Ma affrontato insieme a tanti collaboratori: ogni giovedì ci riunivamo per discutere e distribuirci i compiti».
Ed è arrivato il momento del trasloco.
«Tutti sollecitavano l’apertura del nuovo ospedale e quindici giorni prima della data stabilita ho comunicato il giorno del trasloco ai sanitari: panico assoluto. I sindacati hanno raccolto 1.300 firme per chiedere il rinvio e hanno invocato l’intervento del prefetto. Abbiamo fatto presente che avevamo tenuto 130 mila ore di formazione sul campo nell’ospedale nuovo: equipe guidate avevano accompagnato tutti i dipendenti a conoscere la struttura, come era fatto il reparto di ciascuno e i percorsi dalla propria zona ai punti nevralgici dell’ospedale. Nonostante questo, il prefetto mi ha convocato. Abbiamo spiegato tutto ed è stato deciso di andare avanti».
Avete corso un bel rischio, col personale poco convinto.
«In quei giorni (...)