Cinquant'anni fa

La prima messa in italiano

La prima messa in italiano
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«Si inaugura oggi la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo». Era il 7 marzo 1965, venticinquesimo della morte di don Luigi Orione, oggi santo. Nella parrocchia di Ognissanti a Roma Paolo VI presiedeva la prima Messa in italiano, dando concreta realizzazione alla riforma liturgica scaturita dal Concilio Vaticano II con la Costituzione Sacrosanctum Concilium. Un «avvenimento» - come lo definì Montini nell’omelia - che papa Francesco ricorderà il 7 marzo prossimo celebrando l’Eucarestia nella stessa chiesa sull’Appia Nuova.

Era la I domenica di quaresima; il vangelo quello delle Tentazioni di Gesù. Dunque, nel calendario liturgico, domenica scorsa. Un «avvenimento» che - fatte salve alcune diocesi - non ebbe però quell’attenzione travolgente che avrebbe meritato. In fondo erano parecchi secoli che la messa si diceva in latino in tutto il mondo, e il passaggio alle lingue nazionali qualche riflessione in più avrebbe potuto suscitarla. Magari anche solo un interesse in più, come quello che si riserva alla nascita di un nuovo strumento musicale. E invece non successe niente (o quasi) perché la liturgia - in genere - non attira più che tanto l’attenzione dei fedeli generici. Bisogna anche dire che da diversi anni i testi delle parti fisse della messa venivano diffusi ad alta voce in italiano da un qualche sacerdote mentre il celebrante - rivolto dall’altra parte - continuava a leggerli in latino sul messale: quindi da un punto di vista esterno il cambiamento non si rivelò certo destabilizzante.

Rispondere «E con il tuo spirito» invece che «Et cum spirito tuo» (sì: si dovrebbe dire “spiritu”, con la ‘u’, ma tranne in Sardegna tutti usavano la forma italianizzata) non poneva eccessivi problemi dalle nostre parti. Diversa era ovviamente la situazione in ambiti linguistici meno connessi con Roma. Il Gloria, il Credo e il Padrenostro, però, si recitavano già in lingua un po’ dappertutto mentre Collette e Secrete non costituivano certo argomento di discussioni accalorate nelle parrocchie. Se fossero sparite del tutto probabilmente se ne sarebbe accorto solo qualche assiduo frequentatore di messali e dintorni. Dunque in questa prima domenica di una nuova era liturgica, a parte un po’ di emozione e qualche avviso più sottolineato, non successe niente di particolarmente significativo. Bisognò attendere qualche mese per poter capire chi fosse davvero entrato in sintonia col nuovo corso e chi, invece, fosse restato al vecchio.

 

 

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Il primo segnale discriminante lo inviarono le omelie. Quando la messa era in latino, infatti, le letture non arrivavano direttamente ai fedeli. Il celebrante doveva pertanto riassumerne il contenuto nella prima parte della predica per far capire di cosa avrebbe parlato. Nel nuovo regime, invece, tutti potevano seguire i testi sul foglietto o sul messalino, e quindi la ricapitolazione degli episodi avrebbe dovuto essere considerata superflua. Ci fu chi prese subito l’abitudine di intervenire semplicemente commentandoli, ma ci furono anche schiere di sacerdoti che - dimentichi dell’innovazione - continuarono a ritenere l’omelia un puro esercizio di versione in prosa del Vangelo. Questa abitudine di per sé innocua mise però pian piano nella testa dei fedeli l’idea che molti sacerdoti non tenessero affatto conto né delle indicazioni del Concilio né del loro uditorio, o che almeno ritenessero quest’ultimo per lo meno distratto quando veniva proclamata la parola di Dio. In entrambi i casi l’atmosfera liturgica ne risultava compromessa. Tanto più per il fatto che allora (stiamo parlando degli anni immediatamente successivi al '65) chi andava a messa tutte le domeniche ricordava abbastanza bene cosa fosse successo al figliol prodigo, alla samaritana o a quel tale che aveva male amministrato i fondi del padrone. Sentirseli ripetere poteva comportare diversi gradi di abiura, compresa l’ipotesi di un passaggio ad altra religione.

Il secondo segnale del rapporto fra clero e innovazione liturgica - questa volta dovuto agli innovatori - fu costituito dall’abitudine sempre più diffusa fra i celebranti di lasciarsi andare a modificare alcuni testi loro riservati - ma da leggere comunque a voce alta - per trarne gorgheggi spirituali ritenuti forse più adatti al gregge o più emotivamente coinvolgenti la plebs peccatrice ma non per questo meno sancta convenuta in chiesa. La pratica delle variazioni sul tema non era ovviamente possibile quando i testi erano in latino e non furono pertanto pochi coloro che ne rimpiansero il limpido e secolare rigore.

Venne infine il tempo in cui biblisti e liturgisti entusiasti e assai competenti furono presi dal fuoco dell’esattezza filologica delle traduzioni dalla liturgia precedente e dai testi biblici. Si inaugurò così l’epoca dei cambiamenti su cui tacere è bello, come nel caso dello sciagurato passaggio da «uomini di buona volontà» a «uomini del Tuo amore» che qualunque docente - pur comprendendo lo sforzo di rendere in maniera più precisa quella rara forma di genitivo ebraico - avrebbe segnato in blu.

Solo su «charitas» diventato «amore» avremmo qualcosa - anzi: tantissimo - da ridire, perché siamo convinti che se i primi cristiani latini, che disponevano di un sacco di parole per indicare l’amore, avessero voluto dire «amore», non si sarebbero inventati “charitas”. Ma questo, lo abbiamo già detto - è successo dopo.

 

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