La recensione

Miyazaki: la difficile eredità e il sogno di un’altra vita

“Il ragazzo e l’airone” è un viaggio metafisico, tra la ricerca di una madre e il fardello di essere Miyazaki

Miyazaki: la difficile eredità e il sogno di un’altra vita
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Di Fabio Busi

Non è facile andare al cuore di questo film senza in qualche modo svelarne i segreti. Perché nella sua ultima fatica “Il ragazzo e l'airone” Hayao Miyazaki si fa criptico, enigmatico. 82 anni e infinite meraviglie alle spalle, sembra aver invertito la rotta negli ultimi due lungometraggi, scegliendo un cinema più adulto, calato nel reale, post-traumatico se vogliamo.

Alla fine dell'avventura di Mahito, sembrano emergere due istanze contrapposte: da un lato quella del sensei (Miyazaki stesso) che cerca disperatamente un erede degno. Il mondo e l'arte stanno in equilibrio grazie al costante sforzo del prozio, una sorta di stregone-demiurgo che governa tutti gli universi possibili, intrecciati nella torre-portale.

Dall'altro, si fa largo un desiderio differente. Quello di Mahito stesso (Miyazaki da ragazzo), che chiede solo una vita normale, una madre che gli venga restituita dalle fiamme. Ma se questo non è possibile, forse si può anche accontentare di una nuova figura.

Il cineasta polverizza lo spazio-tempo e ci pone davanti a delle sliding doors: potesse scegliere, farebbe di nuovo quello che ha fatto, il creatore di mondi, inevitabilmente solo, gravato da infiniti pesi e responsabilità, oppure si accontenterebbe di una vita semplice, ma baciata dall'affetto materno?

La prospettiva senile e quella fanciullesca si toccano alla fine di un percorso che sembra riassumere tutti i topoi della sua filmografia. Il viaggio iniziatico in un luogo metafisico, la reversibilità dei personaggi (l'airone ingannatore e poi aiutante), un ecosistema che sta morendo e divora se stesso, le prove morali a cui viene sottoposto il protagonista, le buffe creature che popolano gli anfratti del mondo (gli warawara), le tenere vecchine, gli amuleti. Ma anche i pezzi di carta vivi, che tentano di soffocare Mahito e Natsuko. L'ambiguità del fuoco, che distrugge e salva.

C'è anche qualcosa di nuovo: i parrocchetti che invadono la torre, orribili (nel senso di scialbi esteticamente, per non concedere loro alcuna grazia) quaquaraquà che tutto divorano senza senno, parassiti inutili e infestanti, immagine del mondo popolato da “pappagalli”. I bimbi non nascono perché divorati dai pellicani, non per una forma di crudeltà, ma perché il mare ormai è avvelenato. È il pianeta Terra che si ribella al giogo dell'uomo.

A livello strutturale, c’è forse un piccolo errore: quello di dilungarsi oltremodo con la parte introduttiva, prima di entrare nel regno oltremondano, trovandosi poi ad affastellare molti concetti e passaggi decisivi in pochi minuti.

Se dovesse essere il suo ultimo lavoro, chiuderebbe un'opera leggendaria con toni cupi, uno stile che si è fatto più austero, calmo, ricco di silenzi. La perdita sta volta non è conseguenza, ma premessa. Superarne o meno le risonanze è questione di scelte, mai state più dirimenti. Anche l’immaginazione s'è piegata su se stessa. Non ha più molta voglia di scherzare e perdersi nella fantasia, Hayao, perché è giunto il momento di tirare le somme.

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