Quel firmamento bergamasco fatto di "panigaröle"
Le lucciole in estate hanno sempre alimentato la nostra fantasia
di Ezio Foresti*
La loro magica luce intermittente ha punteggiato le nostre notti estive e continua a farlo, anche se in misura minore di un tempo. Le lucciole hanno sempre alimentato la nostra fantasia, quando immaginavamo che i misteriosi messaggeri notturni comunicassero con il loro lampeggiare qualcosa di arcano, tradotto in impulsi luminosi.
In realtà se scaviamo più a fondo scopriamo che i simpatici insetti annunciano qualcosa di molto più concreto. Ma procediamo con ordine, cominciando dal nome. In bergamasco possiamo chiamarle lusaröle, con un chiaro richiamo alla luce emessa, viöle, pensando al loro colore o alla presenza nei prati, oppure, e qui sta il segreto, panigaröle.
Il termine appare criptico, senza alcuna parentela con quello italiano. L’enigma comincia a essere svelato quando osserviamo la prima sillaba, pà, cioè pane.
Il legame tra l’alimento e il coleottero ancora ci sfugge, ma ci vien in aiuto il vocabolario del dialetto di Borno, che annovera tra i sinonimi pamarüt e panoèl, pane maturo e pane nuovo. Vista la stagione, il richiamo al grano e al suo derivato pare perfettamente logico. Lo spiega così il Tiraboschi: “insetto notissimo che riluce la notte con moto alternativo, e annuncia il granire delle messi”.
Sentinella del buon raccolto e avanguardia del nutrimento, la panigaröla era anche al centro di rituali e filastrocche propiziatorie, la più nota delle quali recita: Panigaröla vé a bas, te daró pà e lacc, pà e lacc i de scödèla, panigaröla vé a tèra. Una volta irretite dalla litania, le lucciole venivano catturate e impiegate in giochi di cui la nostra incoscienza impediva di intuire la crudeltà.
Uno di questi prevedeva di racchiudere alcuni insetti nella coppa delle mani premuta sugli occhi, per poi osservare un piccolo firmamento pulsante. Una Via Lattea personale, non meno infinita di quella vera.
*In memoria