Il filosofo Evandro Agazzi: «La vera meraviglia è chiedersi il perché delle cose»
Bergamasco purosangue, classe 1934, è uno dei più stimati pensatori della scienza a livello mondiale. Ha insegnato nelle più grandi università del pianeta
di Bruno Silini
Si definisce bergamasco purosangue e orgoglioso di essere nato in Città Alta il 22 ottobre 1934. Dopo una brillante carriera accademica in prestigiose università italiane e estere, il filosofo Evandro Agazzi oggi vive e lavora in Messico. Attualmente è direttore del Centro Interdisciplinare di Bioetica all’Università Panamerica di Città del Messico. Le sue presenze in Italia sono diventare assai rare.
Come mai è finito in Messico?
«Le vicende della vita sono molte e diverse. Sono stato in varie università, in vari Paesi. Ho tenuto lezioni a Oxford, Pittsburgh, Stanford. Non esiste un’importante università degli Stati Uniti nella quale io non abbia insegnato qualche cosa. Mi sono imbevuto delle varie sensibilità culturali, comprese le influenze dell’America Latina, di solito ignorate perché c’è una specie di strano pregiudizio che confina quelle zone a livello coloniale. Lì ho avuto la possibilità di fare esperienze, incontri, anche di carattere filosofico e scientifico. Basta essere attenti a quelle che sono le vere occasioni di interloquire. E allora si incontrano anche tante persone preparate e intelligenti là dove uno prima non se l’aspettava».
Qual è stato il suo approccio alla filosofia?
«Da ragazzino aiutavo mio padre nella correzione delle bozze dei suoi libri. Ha pubblicato alcuni manuali di storia della filosofia e della pedagogia e io ero il suo correttore. Da qui il mio primo approccio con la materia. Però quella non si può definire una conoscenza vera, la quale si acquisisce leggendo e meditando sui testi classici, primo fra tutti l’Apologia di Socrate di Platone. La lessi che avevo più o meno 18 anni. Una lettura paziente per correggere bozze a mio padre unita a una meditazione dei classici mi hanno portato a fare della filosofia la mia professione».
Vivendo in Messico, la percezione dell’Italia cambia? Il fatto di osservare una realtà dall’esterno aiuta o rende più complessa la comprensione?
«È difficile che uno cambi la sua idea della propria patria. I legami che uno ha con la propria terra sono così penetrati nel suo modo di essere che non li perde. All’estero, dove a conti fatti ho trascorso la maggior parte della mia esistenza, non c’è mai stato un momento in cui non mi sentissi italiano e bergamasco».
È ancora la meraviglia che muove, oggi come ai tempi di Talete, la filosofia?
«Bisogna anche vedere che cosa significa meraviglia, perché il meraviglioso ormai, nella parlata comune, è qualcosa che stupisce, è qualcosa che magari affascina ma in maniera superficiale. Ma la meraviglia intesa come motore della conoscenza filosofica è data dal fatto di porsi domande di fronte al mondo. E la domanda prima è: “Ma perché tutto questo?”. Per questo definisco la filosofia come l’invenzione del perché. Il vero filosofo, anche di fronte a realtà che sembrano ovvie, belle o brutte che siano, non disdegna di chiedersi: “Ma perché è così?”. È una conseguenza naturale del riflettere. Aggiungo che sono proprio le cose più belle quelle che fanno nascere le domande più profonde. Pensiamo alla religione: è una delle risposte più immediate e profonde che l’umanità ha trovato a questi perché. L’invenzione del perché è tutto sommato un dono che l’Occidente ha fatto alla civiltà umana in generale, perché ci sono molte altre culture che hanno preso strade diverse».
Per esempio?
«Le culture orientali, basate sulla cosiddetta saggezza, sul praticare determinate forme di vita, non sono passate attraverso l’esperienza del perché (...)