Concerto

Stasera c’è Herbie Hancock al Lazzaretto: quella poesia sonora che va oltre il jazz

Il famoso musicista torna a Bergamo 53 anni dopo: era il 1972 quando portava il suo tocco pianistico fatto di eleganza sul palco del Donizetti

Stasera c’è Herbie Hancock al Lazzaretto: quella poesia sonora che va oltre il jazz
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di Fabio Santini

Per una volta almeno noi che siamo vittime della nauseante omologazione dei generi imposti dal vuoto pneumatico della musica di oggi, oppure puristi del jazz tanto da non concepire nessun guizzo creativo che non sia scritto nelle pagine dei grandi classici della musica afroamericana, ebbene facciamo questo sforzo e apriamo le nostre anime, le nostre prospettive al cospetto di un genio che torna a Bergamo oltre mezzo secolo dopo avervi fatto tappa.

Era il 1972 quando Herbie Hancock portava il suo tocco pianistico fatto di eleganza e guizzi poetici sul palco del Donizetti. La sua prima trasformazione stilistica dal be-bop al cosiddetto jazz elettrico era già in corso da almeno tre anni. Quello che accadde dopo ha segnato la storia e l’identità della musica: il trionfo della contaminazione dei generi, portando l’arte del jazz al di fuori di ogni schema critico.

Herbie Hancock viene da Chicago, la città degli Art Ensemble, gruppo di free jazz da strada, di Muddy Waters e dei Chicago, degli Styx e di Bo Diddley, dei Blues Brothers e Willy Dixon. Come dire, una sorta di laboratorio demografico dal quale la città americana ha attinto originalità e spinta verso la ricerca. Hancock ne è figlio eletto e supremo. E stasera salirà sul palco del Lazzaretto con il suo nuovo gruppo: troppo recente per essere passato al Mito come il quintetto di Miles Davis con Wayne Shorter, Tony Williams e Ron Carter. O come il trio Hurricane con Billy Cobham e lo stesso Carter. Ma non importa perché il genio universale di Hancock farà sì che l’equazione sonora esalti la fantasia e le provenienze dei suoi musicisti più recenti. Sono il trombettista Terence Blanchard da New Orleans, il chitarrista Lionel Loueke dal Benin, il bassista James Genus da Hampton (Stati Uniti) e il giovane batterista Jaylen Petinaud da Brooklyn.

E lui, Hancock, si inerpica nel suo repertorio che ha fatto storcere il naso ai puristi esplorando soluzioni elettriche ed elettroniche perché indietro non si torna. Difficile prendere un punto di partenza per l’ottantacinquenne musicista che a soli 7 anni suonava Mozart al pianoforte e oltre 70 anni dopo salta tra sperimentalismi di ogni genere. Ne basta uno: in piena era jazz rock, Hancock si inventa un gruppo composito fatto di richiami funk, caraibici e della Madre Africa. Sono gli Headhunters dei quali stasera riascolteremo l’indimenticabile “Chamaleon” che dà ancora oggi un senso alle nuove direzioni della musica. Definibile? Grazie a Dio: no! Perché, come diceva Duke Ellington, esistono solo due generi: la musica buona e quella cattiva. E chissà che tra le sorprese che Hancock vuole riservarci non vi sia la sua versione de “Il buono il brutto il cattivo” di Ennio Morricone a segnare l’incontro tra due geni sublimi, l’incontro tra ieri e oggi. Al di fuori dagli schemi, si intende.