Dante e la morte della sua Bice cioè non è la bellezza che ci salva
Continua il nostro viaggio alla scoperta di Dante, in occasione dei 750 anni dalla sua nascita. Il Sommo Poeta raccontato con colta leggerezza da uno dei maggiori esperti, Alberto Brasioli. Dopo il colpo di fulmine con Bice (Beatrice) e il racconto del Dante "quotidiano", ecco la terza tappa del nostro viaggio.
Stavamo dicendo di Bice e delle pizzette in casa Portinari. La bambina crebbe, diventò grande, si sposò con un tale. Ma Dante aveva capito che ormai la sua - sua di lui, di Dante - vita sarebbe dipesa per sempre da quell’incontro. E così viveva felice e sicuro di sé. Nel medioevo - come lo chiamarono in seguito - si era ancora abbastanza saggi da capire (meglio: da sapere) che un matrimonio non si costruisce su una passione (perché poi vien meno, inevitabilmente) e che, viceversa, l’amore non ha niente a che vedere con un subbuglio ormonale. Dunque tutto filava come meglio non avrebbe potuto: lei sposata, lui anche, lei il suo punto di riferimento e di giudizio sulla vita. Perché questo appunto significa amore: un nesso imprescindibile con qualcosa che si impone su tutte le altre.
Ma lei muore. Come, muore? Era ancora giovanissima, come ha fatto a morire? È morta. La cosa più bella della mia vita, perché mi è stata tolta? Morta. Il racconto che Dante fa dei giorni successivi a questo avvenimento è - forse - la cosa più importante di tutta la sua opera. Per prima cosa dice che non c’era niente che potesse consolarlo. Niente e nessuno. E già questo è un fatto rilevante, perché ci conferma nella convinzione che alla brutale violenza di Dio nei nostri confronti non c’è conforto di risposta che tenga. Perché la violenza non è stata fatta alla Bice: è stata fatta a Dante, che è rimasto vivo. Secondo: visto che nessuno dei vivi era in grado di porre rimedio ad una simile perdita, Dante si mise a cercare tra i morti. Pensava: magari qualcuno, in qualche libro, ha lasciato detto come si fa in casi come il mio. Qualcuno che ci sia passato.
E qui la scena si fa tenerissima, perché il poveretto va in libreria (o in biblioteca, non sappiamo) a cercare titoli contenenti la parola “Consolazione”. E ne trova uno, di un genio assoluto a nome Severino Boezio (vissuto ai tempi di Teodorico), intitolato appunto “Perché la filosofia può consolare”. Lo legge. Lo trova un po’ difficile all’inizio, poi però “ci entra dentro” quanto basta - dice lui.
Visto che l’esperimento è andato a buon fine ne legge anche un altro, che si chiama “Lelio, o l’amicizia”, è di Cicerone, ma gli hanno detto che c’è una parte che riguarda il modo con cui questo Lelio è riuscito a venir fuori dalla depressione seguita alla morte di un suo amico, un certo Scipione. E qui succede la cosa certamente di gran lunga più importante e decisiva di quelle che sono successe a Dante. E va detta con le sue parole:
E avegna che duro mi fosse nella prima entrare nella loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare. (E questo lo abbiamo già detto. E continua:) per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea.
Dunque, signori di tutto il mondo, prendete nota: i libri è inutile leggerli se uno, prima di leggerli, non ha già l’idea - confusa quanto si vuole, ma comunque un’idea - di ciò di cui il libro parla. E a questo punto viene fuori l’esperienza che - avrebbe detto Leopardi qualche secolo dopo - se uno non la fa difficilmente riesce poco più che bambino:
E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori della 'ntenzione sua truova oro, lo quale occulta cagione presenta; non forse sanza divino imperio, io, che cercava di consolar me, trovai non solamente alle mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa.
Traduciamo? Il passaggio dall’adolescenza alla maturità avviene quando si incontra - nella storia degli uomini - una risposta che si dimostra più grande della domanda che ci ha mosso ad incontrarli. Una risposta che faccia capire quale sia la cosa “vera”, il contenuto “reale” del desiderio che ci ha sostenuto fin lì. Quale sia il volto profondo dell’amore che ci ha legato in quel modo così strano - e all’apparenza così definitivo - alla presenza che ci è stata tolta in un modo così orribile. Con buona pace dell’abusato Dostoevskij e dei servizi sull’Expo, è sicuro che non sarà la bellezza a salvare il mondo. A salvare il mondo - la vita di Dante, la nostra - è solo la brutalità di Dio, uso a ritirare dal mondo - e solitamente coi mezzi più atroci - la persona nella quale abbiamo dapprima posto la nostra speranza. Ricordiamoci sempre cosa ha fatto a e con suo Figlio.
Dante ci dice dunque che la serena impassibilità di Giobbe non basta più. Non basta più dire (ammesso che sia mai stato detto da qualcuno, perché il libro di Giobbe non fa parte dei libri storici): «Il Signore dà; il Signore toglie. Sia benedetto il nome del Signore». Non ci consola - non può consolarci - una simile prospettiva. Siamo adulti. Se si vuole “sanare” (il verbo che Dante usa in questa circostanza) c’è soltanto da fare un salto di consapevolezza, consistente nel rendersi conto che ogni cosa che ci è data per suscitare in noi il desiderio (ogni Beatrice) ci è data per esserci tolta d’improvviso così da farci entrare in un altro ordine di considerazioni, in un altro universo mentale.
L’amore non può essere ad una donna o a un uomo. Per essere amore “vero” dev’essere strutturalmente inconsolabile, nel senso che deve saper passare di perdita in perdita per acquistare in profondità. Deve attraversare la morte e il suo inferno per poter riconoscere il volto che ci attrae dentro ogni volto che ci è sottratto, la realtà che si cela dentro ogni corpo che muore. [continua]