Il Papa e la fine del comunismo (Non c'è bisogno di essere altro)
Siamo così: uno dice “poveri” e subito c’è chi pensa alla Caritas e chi al comunismo. In ogni caso aleggia intorno la Teologia della Liberazione col succedaneo dei preti guerriglieri e della rivoluzione armata. L’intervento dell’hermano Francisco al convegno dei movimenti popolari a Santa Cruz potrebbe aver messo fine a tutto questo. Potrebbe, abbiamo detto, perché nessuno è obbligato a capire cosa è stato davvero in quel discorso. Noi, per esempio, vi abbiamo intravisto la fine sia del marxismo-leninismo, ma anche di un certo modo ecclesiastico di pensare la carità. E l’inizio di un pensiero assolutamente nuovo rispetto ad entrambi.
Perché la fine del marxismo e del comunismo. Veniamo dal 68. Abbiamo letto Althusser che rileggeva a modo suo - e in maniera molto convicente - sia Marx che Lenin. Il marxismo, diceva, è una dottrina scientifica che ha la pretesa di determinare lo sviluppo del mondo allo stesso modo con cui uno scienziato si accinge a mettere in atto un esperimento da cui si attende un risultato definitivo nell’ambito della sua disciplina e, di riflesso, sulla realtà delle cose. Il soggetto di questo esperimento è il proletariato, ossia l’insieme degli sfruttati della storia (“i dannati della terra” li avrebbe chiamati Franz Fanon in un testo famoso). Guidato dal partito comunista - lo scienziato consapevole, la testa pensante - il proletariato sarebbe insorto contro la borghesia sfruttatrice, avrebbe preso il potere, avrebbe avviato l’età finale del mondo, era di pace e di prosperità nonostante il nome della fase intermedia del processo (la dittatura del proletariato) fosse motivo di qualche ansia. Ma si sa: ogni esperimento prevede una certa dose di rischio.
A rendere meno radiosa del previsto la marcia verso l’umanità libera e uguale stavano (e stanno) tre questioni. La prima riguarda l’essenza stessa del proletariato, che Marx definisce “una classe” dotata di una certa consapevolezza di sé e del nemico (la borghesia), chiamata appunto “coscienza di classe”. Il guaio è che lo stesso Marx si piantò esattamente su questo punto: non riuscì a definire cosa fosse precisamente una classe. Per questa ragione il suo “Das Kapital” restò inconcluso. Però su una cosa lo stesso Marx si mostrò sicuro, e cioè sul fatto che per poter fare la rivoluzione proletaria era necessario che i singoli individui si convincessero di essere non Tizio, Caio o Sempronio che facevano gli operai o i contadini ma, appunto, che entrassero nel processo con la consapevolezza di appartenere alla classe degli sfruttati da che mondo è mondo.
Questa coscienza non si formava in maniera automatica - le teorie, soprattutto quella marxista, non sono facili da affrontare e men che meno da digerire - e pertanto si aveva la necessità di qualcuno - più intelligente e più scientifico degli altri - che l’aiutasse a svilupparsi. Il famoso testo di Gyorgy Lukács, Storia e Coscienza di Classe, mette bene a fuoco la faccenda: proletari non si nasce, a esser proletari s’impara. Gli intelletuali organici al partito guida della rivoluzione - vedi quel che ne ha scritto Antonio Gramsci - son lì apposta.
In questa prospettiva sono già contenuti i GuLag, nei quali è morta sia un sacco di gente che non riuscendo a capire come si facesse a diventar proletari doveva esser messa dietro la lavagna, sia altra gente che, per motivi suoi, non aveva alcuna intenzione di diventarlo pensando che tutta quella didattica - e i suoi contenuti - fossero come la Corazzata Potemkin per Fantozzi. Il Papa a Santa Cruz ha fatto piazza pulita di questo modo di vedere il processo di liberazione degli sfruttati con la stessa agilità con cui Einstein spazzò via la questione del vento d’etere.
Ha detto, l’hermano Francisco, che per collaborare alla fine di questa situazione mondiale - che non piace a nessuno e che danneggia tutti, Madre Terra compresa -, non c’è bisogno di imparare nessuna scienza della storia e tantomeno di fare una full immersion nella coscienza di classe. Non c’è bisogno, soprattutto, di essere qualcosa di diverso da quello che si è: raccoglitori di cartoni e di plastica nelle strade, frugatori nell’immondizie, studenti che si sentono incapaci, missionari alle prese con le necessità della gente. Va bene così. Chiunque tu sia, va bene così. (Nella storica intervista alla Civiltà Cattolica (quella: chi è Bergoglio? Sono un peccatore) il Papa cita fra i suoi (pochi: due o tre) maestri il confratello gesuita Michel De Certeau, il genio che ha scritto L’invenzione del quotidiano, testo fondamentale sulla lotta che impegna ciascun uomo preso tra la Scilla della quotidianità immediata e la Cariddi delle norme sociali in tutta la loro estensione).
Rivolgendosi ai convenuti alla tre giorni papa Francisco ha fatto capire che non ci sarà nessuno che verrà a farci delle lezioni su quel che dobbiamo fare e su quel che dobbiamo pensare di noi stessi al di là di quel che siamo. Ci basterà essere disposti - ciascuno per la sua parte, e lì dov’è - a discutere con gli altri, a dialogare con gli altri nella necessaria (ha detto così: necessaria) varietà delle posizioni e nei progetti, e a stare (così: a stare) a quel che si è convenuto per procedere al passo successivo che non si sa - prima - se sarà giusto o sbagliato. Ma se saremo aperti alla realtà delle cose, se non terremo blindado nuestro corazón, saremo anche capaci di apportare - passo dopo passo - i cambiamenti di rotta che si riterranno necessari. E così andremo avanti in un mondo che non avrà bisogno di essere perfetto per poter essere libero in pace: si può cominciare da subito a ser libres (essere liberi), pur che lo si desideri.
Per questo motivo l’aspetto fondamentale dell’intervento del Papa è costituito dal fatto stesso di non essersi recato lì con l'intenzione di insegnare agli altri come si fa a rendere il mondo una zolla più accogliente quanto attualmente non sia. Nessuna scienza, nessun comitato di ideologia che detenga le chiavi del processo di liberazione: Francisco era lì per «discutere sui modi migliori per superare le gravi situazioni di ingiustizia che soffrono gli esclusi in tutto il mondo».
Discutere, affrontare insieme a chi già lo stava facendo per conto suo, i problemi non degli sfruttati marxisticamente intesi, non dei poveri di cui si occupa la Caritas, ma degli “esclusi”. Cioè di coloro che, in termini psicoanalitici, si direbbero il rimosso dell’umanità, ciò che l’accecamento prodotto non dal denaro, ma dall’avidità di denaro che controlla l’intero sistema socioeconomico, non dal capitale, ma dal capitale divenuto idolo di se stesso, non permette a nessuno di vedere, di riconoscere nella sua condizione di sofferenza. L’inconscio del mondo sarà la sua cura.
Cambiare il mondo significa dunque, prima di ogni altra cosa, decidersi a vederlo, a sognarlo - in senso tecnico. Per farlo non c’è bisogno di nessun addestramento previo, di nessuna appartenenza previa, di nessuno che ci venga a dire questo sì e questo no. Bastiamo noi soli alle prese col nostro cartone, coi nostri rifiuti da riciclare, con la nostra umanità da portare giocandocela con chi ci sta. Punto.