Jennifer, che ha ucciso i suoi perché mentiva sugli esami

La storia, in sintesi, è la seguente: c’è una ragazza, Jennifer Pan, che ha un fratello - Felix, più piccolo di tre anni -, e due genitori: Bich (pron. bic) Ha, la mamma e Huei Hann Pan, il padre. I genitori sono vietnamiti, giunti in Canada da Hong Kong lei e dal Vietnam lui. Hong Kong per modo di dire, perché nella città ora cinese esisteva un immenso campo profughi per i sudvietnamiti fuggiti sulle barche: un mondo fatto solo di cemento e reti di recinzione, in cui non spuntava nemmeno un filo d’erba. Fuggiti dalla guerra e sposati a Toronto, i due vanno a vivere in una cittadina poco a nord, dove riescono a passarsela non male. La loro è una storia di successo, come si usa dire.
Jennifer frequenta le scuole con buoni (non ottimi) risultati, sapendo che Bich e Hann hanno investito molto - forse troppo - su di lei. La sua vicenda personale - raccontata sul Toronto Life da una giornalista che è stata anche sua compagna di scuola, Karen K. Ho - è la normale normalissima storia di una giovane canadese di provincia, fatta di feste al liceo, apprendimento di uno o più strumenti musicali da suonare in qualche band, amori e pattinaggio, o sci. Come dice la sua biografa, «fino a 22 anni Jennifer non aveva mai frequentato un locale, non si era mai ubriacata, non si era mai fermata a dormire nel cottage di un amico, non era mai andata in vacanza senza famiglia al seguito». Anche il rapporto col suo primo amore, Daniel Wong, un ragazzo poco più grande che suonava la tromba nella band della scuola e, fuori, in una banda da sfilata, era stato platonic, fino a quando lei non aveva subito un attacco d’asma da fumo passivo e lui si era dimostrato molto premuroso.
I guai per la ragazza cominciano nel momento in cui deve passare all’Università: vorrebbe iscriversi a farmacologia, ma la sua domanda d’ammissione viene respinta. Il suo curriculum scolastico non è all’altezza. Pressata dalle aspettative familiari pesanti come un macigno Jennifer comincia a tessere una rete sempre più complicata di menzogne che le procurano in un primo tempo il dono incredibile di un computer portatile da parte del padre (the classic tiger dad, il padre padrone delle favole più tremende) orgogliosissimo di tanta figlia, ma che alla fine vengono al pettine. E quando i genitori scoprono che Jennifer non solo non si laureerà tra qualche giorno, come aveva detto, ma non è mai stata nemmeno iscritta alla facoltà e non ha fatto niente di quel che aveva raccontato loro per mesi e mesi, per la figlia iniziano i tempi duri di una vera e propria reclusione domestica. Al suo ragazzo - che riesce a contattare con qualche stratagemma telefonico - dice di sentirsi ai domiciliari.
Questa situazione, complicata anche dalla gelosia per Daniel che ha iniziato nel frattempo una storia con un’altra ragazza, culmina nel progetto di assassinare Bich e Hann: i due fidanzati affittano per pochi soldi - tramite un amico di lui - dei killer da strapazzo per fingere una rapina in casa Pan e uccidere i due vecchi. La stessa Jennifer, assicurata al corrimano della scala con le mani legate dietro la schiena, avrebbe chiamato il 911 - l’efficientissimo numero canadese delle emergenze - per chiedere soccorsi.
Tutto fila liscio: i genitori vengono portati nel seminterrato e uccisi a colpi di pistola, in pochi minuti arriva la polizia, Jennifer è in preda a un attacco di nervi (finto, ovviamente) quando si sente improvvisamente l’urlo del signor Hann, che non era affatto morto ma solo ferito molto gravemente. E quando si deciderà a parlare saranno guai seri per i congiurati. Nel corso dei primi interrogatori, tuttavia, la polizia non sospetta di niente - Jennifer tiene magnificamente la parte - ma poi cominciano ad apparire i primi buchi nella sua ricostruzione della storia. Nel corso del terzo interrogatorio il crollo: all’agente che le dice di sapere tutto su come si siano svolti i fatti Jennifer tenta di opporre l’ennesima puntata della fiction, la più complicata. Alla fine si arrende. Al processo lei, Daniel e la banda dei killer dell’Ortiga come li avrebbe chiamati Jannacci vengono condannati a pene severissime con aggravanti di tutti i generi.
Il Washington Post, in un articolo a firma Yanan Wang, riprende questa storia (in traduzione su ilpost.it) e la colloca nell’ambito del grande dibattito sull’educazione in corso in America. Vogliono capire se sia meglio la loro - permissiva, tutta coccole ed incentivi - o quella asiatica, di una rigidezza da far paura ma che può vantare dalla sua una montagna di risultati e di premi. Nei giorni scorsi, scorrendo l’elenco dei vincitori di alcuni prestigiosi premi pianistici, notavamo anche noi che le bandierine dei paesi asiatici tendono sempre più ad avere il sopravvento sulle altre.
Però, sperano di potersi consolare gli americani, se l’educazione asiatica genera una pressione tale sui figli da portarli a voler uccidere papà e mamma, il nostro metodo dovrebbe risultare migliore, più affidabile. Meno bandierine, ma più genitori vivi. I nostri figli - pensano sempre gli americani - nel peggiore dei casi sparano nei campus universitari o in qualche scuola. Se fanno i poliziotti sparano contro i negri. E se uccidono a colpi di scure i genitori non lo fanno certo perché troppo pressati dall’attesa di risultati scolastici eccezionali.
In un libro richiamato anche dal Washington Post, The Asian American Achievement Paradox, una studiosa americana, Jennifer Lee e una di Singapore, Min Zhou, disegnano un quadro molto avvincente della situazione dei figli di immigrati asiatici alle prese con la necessità di avere successo nella nuova società. E la prof. Lee, intervistata a proposito della sua omonima Pan, fa capire che la formula Asian Education è piuttosto approssimativa e non consente di affrontare bene il fenomeno. Certo: per una ventiduenne con gli occhi a mandorla che tenta di far fuori i suoi non si possono metter sotto accusa né tutti i genitori asiatici né i loro metodi un tantino bruschi. Anche perché - verrebbe da aggiungere - anche nei nostri paesi né asiatici né americani si danno casi di stragi efferate compiute da ragazzi - o anche da uomini fatti - nei confronti di genitori, parenti e amici.
Il caso più recente è quello narrato in L’avversario di Emmanuel Carrère. Il suo protagonista è tale Jean-Claude Romand, attualmente detenuto in un carcere francese per aver organizzato una carneficina durata due giorni e compiuta in due diverse località quando si è accorto che la sua identità fittizia, costruita meticolosamente per anni senza che nessuno, neanche gli amici, ne avesse il minimo sentore, sarebbe crollata nel corso di un’annunciata verifica burocratica. Il caso più affascinante rimane tuttavia quello di Pierre Rivière, il ragazzo che, negli anni Trenta dell’Ottocento compì la strage analizzata magistralmente in un libro a cura di Michel Foucault (Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... Einaudi) che ancora costituisce un punto di riferimento importante per chi voglia indagare simili delitti.
Che dire in proposito? che hanno ragione coloro che sostengono che anche gli studi più accurati non possono far altro che metterci di fronte ad una serie di ipotesi - alcune verosimili, altre meno - su cosa sia passato nella mente di certe persone. Potrebbe essere più fruttuoso, allora, percorrere la strada di coloro che hanno avuto gli stessi pensieri di Jennifer, ma si sono fermati prima di dar loro esecuzione.
Nella discussione sul sito Reddit della storia, un utente che ha deciso di restare anonimo ha scritto: «Questa storia mi ha colpito, perché la mia vita era molto simile a quella di Pan. Io vengo da una famiglia asiatica con la stessa mentalità di quella di Pan. Ero uno studente eccezionale al liceo, ho avuto una borsa di studio e ho potuto scegliere io quale università frequentare: da lì sono iniziati i problemi». Anche lui, dopo aver fallito all’università, ha cominciato a vivere una vita di bugie fino a quando non è stato scoperto: «I miei genitori mi hanno dato tutto e hanno sacrificato tanto per il mio successo, e questo era il risultato. Però io ho accettato le condizioni che mi hanno posto i miei genitori per rimettere in sesto la mia vita. Non ho nessuna pietà per Jennifer Pan, perché credo di essere stata nella sua situazione. Dopo che i suoi genitori hanno scoperto la verità hanno reagito proprio come i miei genitori. Ma io ho usato l’opportunità per rimettere insieme la mia vita, lei per distruggerla del tutto». [trad. ilPost.it]
Anche chi scrive ha conosciuto più di una persona che ha fatto credere di frequentare l’università tirando avanti anche per due o tre anni fuoricorso prima che amici e genitori si insospettissero. Non si sono verificati omicidi né in un senso né nell’altro. Ma l’impressione è che in quei casi le persone interessate, pur vivendo sotto lo stesso tetto, si ignorassero da anni al punto da non richiedere nemmeno che fosse verificata la morte dell’altro. Che vivessero da sempre come reciprocamente inesistenti, o meglio, esistenti nella forma degli incubi silenti, come nel film The Others, di Alejandro Amenábar, interpretato da Nicole Kidman. Da questo punto di vista il caso di Jennifer Pan mostra almeno la persistenza di un elementare, per quanto arzigogolato, terrificante, realismo.