Audrey Hepburn, mia madre

Di Audrey Hepburn l’immaginario collettivo conserva una memoria fondamentalmente cinematografica e divina, come fosse la star hollywoodiana per antonomasia, una creatura mitologica e inarrivabile, connubio di innocenza e bellezza avvolto da un tubino nero e dal fumo di una sigaretta che brucia in fondo a un lungo bocchino. È ovvio che si tratta di una visione parziale, mediatica e di semplice impatto, ma che ci possiamo fare? Non abbiamo null’altro su cui basarci se non un giro in Vespa per le strade di Roma, una distratta visita alle vetrine di Tiffany e qualche scatto immortale di Irvin Penn.
È per questo motivo che è sempre interessante ascoltare chi, dei grandi divi, conosce i lati più personali e nascosti, e grazie ai quali si può averne un’idea più completa e che vada oltre la cinepresa e la reflex d’autore. Se poi questo soggetto rivelatore è addirittura il figlio della star in questione, il tutto assume un valore straordinario. È proprio il caso del secondogenito della grande Audrey, Luca Dotti, che ha appena terminato di scrivere un libro tutto incentrato sulla figura della madre.
[Audrey Hepburn sposa lo psichiatra italiano Andrea Dotti, 1969]
Una madre, ancor prima che un’attrice. Audrey mia madre (Mondadori, 252 pagine, 24,90 euro) è un personalissimo racconto della Hepburn madre, casalinga e persona, un ritratto compiuto da Luca Dotti, figlio che la grande attrice ebbe nel suo secondo matrimonio, quello con lo psichiatra italiano Andrea Dotti. In un’intervista concessa ad Avvenire, Luca rivela interessantissimi stralci del suo libro, mettendo Audrey sotto una luce ben diversa rispetto a quella, abbagliante e spesso poco veritiera, dei riflettori di Hollywood.
L’incipit del libro è estremamente significativo in tal senso: «Non ho mai conosciuto Audrey Hepburn». Il senso di questo provocante inizio è però chiaro: la Hepburn era tutt’altro rispetto all’icona che è diventata. Una donna semplice, dedita alla cura della casa e all’educazione dei figli, cosa che rappresentava per lei l’aspetto più importante della vita. Tornava in famiglia dopo il lavoro e lasciava da parte abiti chic e gioielli luccicanti per indossare jeans e maglioni larghi, come ogni madre fa per essere più comoda in mezzo alle varie occupazioni domestiche.

Audrey Hepburn con il figlio Luca Dotti.

Audrey Hepburn con il figlio Luca Dotti.

Audrey Hepburn con il figlio Luca Dotti.

Audrey Hepburn con il figlio Luca Dotti.
Il premio Oscar vinto con Vacanze romane era seminascosto su uno scaffale stracolmo di libri e oggetti. Quello dell’attrice, d’altra parte, era stato un lavoro di ripiego per la Hepburn: il suo sogno era sempre stato quello di essere una ballerina classica, ma non essendo riuscita a tramutarlo in realtà, decise di tentare la via del cinema, pur senza considerarsi, nemmeno dopo l’immenso successo ottenuto, né particolarmente brava né più bella di tante altre.
A casa il lavoro passava del tutto in secondo piano, ciò che era assolutamente primario erano i figli, ovvero il motivo per cui, a soli 38 anni, Audrey decise di abbandonare il grande cinema: la maggior parte del tempo della sua giornata doveva essere dedicato a loro. «Un marito e dei figli, quando tornano a casa, non desiderano trovare una donna nervosa per il lavoro. La nostra epoca è già abbastanza nervosa, no?», era solita dire. Un ambiente famigliare accogliente era ciò che desiderava fin da piccola: «La casa sono i fiori che scegli, la musica che metti, il sorriso che hai sulle labbra mentre aspetti il ritorno dei tuoi cari. Voglio che la mia sia allegra e vivace, un porto sicuro in questo mondo travagliato».
[Audrey Hepburn in Etiopia in veste di ambasciatrice Unicef, 1988]
Innocente, gentile e sempre attenta agli altri. Se c’è un aspetto di Audrey che emerge in maniera assolutamente veritiera dai suoi film, dice Dotti, è la sua innocenza quasi al limite dell’ingenuità. La Hepburn, da bambina, rimase particolarmente segnata dalla Seconda Guerra Mondiale: i fratelli erano stati tutti deportati, lo zio fucilato, i genitori erano separati, e lei era cresciuta pressoché senza famiglia in un collegio inglese, salvo poi trasferirsi in Olanda per timore che la Germania di Hitler invadesse il Regno Unito. Con una gioventù così dolorosa alle spalle, per Audrey fu quasi naturale, negli anni successivi, affrontare la vita con la leggerezza di chi ha vissuto qualcosa di terribile, in forza del quale nulla può più spaventare.
Aver visto tanti cari soffrire per buona parte della sua esistenza la portò inoltre ad impegnarsi sempre attivamente in opere di solidarietà. Senza moralismo e non per doveri d’immagine: racconta Dotti che «si alzava presto e leggeva interamente i rapporti dei medici per fornire aiuto ai bambini africani, combatteva con forza contro le ingiustizie. Lei sfruttava la sua icona per farne un veicolo di solidarietà, capì che il mondo dello spettacolo aveva un grande potere ma anche una immensa responsabilità, così si offriva al pubblico raccontando la sua vita e mostrando la sua faccia, ma in mezzo ci metteva i bambini denutriti e in questo modo raccoglieva aiuti».
La fede rivestiva un ruolo molto importante nella vita della Hepburn: la carità era il concetto cristiano che più la affascinava e rispetto al quale più si impegnava, insegnava ai figli che «abbiamo due mani: una per ricevere, l’altra per dare», e tenne molto a che i suoi figli ricevessero un’educazione cattolica. Tanti piccoli aneddoti, insomma, che rendono la figura di Audrey Hepburn molto più interessante della semplice diva bella e un po’ ingenua che abbiamo sempre creduto di conoscere.