I trent'anni dalla morte

Noi comunisti bergamaschi che abbiamo creduto in Berlinguer

Noi comunisti bergamaschi che abbiamo creduto in Berlinguer
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La notizia della morte di Enrico Berlinguer mi raggiunse pochi minuti prima di un comizio davanti ai alla fabbrica del Pollo Jolly, a Grumello, sulla statale per Dalmine. Nel pomeriggio le copie dell’edizione straordinaria dell’Unità si esaurirono in poche ore. Le sezioni sottoscrissero da subito cifre importanti in memoria: ricordo che dal piccolo nucleo di Lenna arrivarono cinquecentomila lire. Per tutto il pomeriggio si susseguirono le telefonate e le visite di esponenti di tutti i partiti nella sede della federazione del PCI in via Guglielmo d’Alzano. Chiamò anche don Andrea Spada. La presenza bergamasca ai funerali in Piazza San Giovanni fu massiccia. Molti di noi tornarono perplessi per l’orazione funebre di Giancarlo Pajetta, troppo gridata ed eccessivamente politica.

L’unica occasione di incontro ravvicinato che avevo avuto con Enrico Berlinguer (ero il Responsabile dell’Organizzazione del PCI bergamasco) fu a fine maggio del 1974, il giorno prima dei funerali delle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia. Berlinguer, accompagnato da Tonino Tatò e da Giglia Tedesco, aveva deciso di passare la giornata a Bergamo, all’Hotel San Marco, anche per far visita alla professoressa Ninì Baroni, generosissima benefattrice del PCI che vi soggiornava. Si cenò alla Valletta, in Città Alta.

Berlinguer appariva molto preoccupato, sopratutto per i rischi derivanti dall’intreccio della strategia della tensione con il radicalismo estremista che essa stessa contribuiva ad alimentare. Si parlò anche di calcio: dietro la facciata del tifo per il Cagliari traspariva la sua predilezione per la Juventus (un altro Segretario del PCI!). Il Segretario della Federazione Alfredo Bossi  riuscì a divertirlo con e le sue battute caustiche su questo e quel dirigente nazionale, su Adriana Seroni in particolare, mentre Alfredo Cavalli lo fulminava con lo sguardo. Gli rimprovererà l’episodio per lungo tempo.

Prima avevo intravisto Berlinguer a Bologna nel febbraio del 1969, quando concluse, non ancora Segretario, il XII Congresso del PCI e tre anni dopo al XIII Congresso al Palalido di Milano, quello che lo consacrò Segretario. Ne spiavo le reazioni dopo che  irruppe la notizia della tragica fine di Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba sotto un traliccio dell’alta tensione a Segrate. Fu allora che in molti di noi – credo anche in lui, come mi confermò, l’amico Gigi Guerra, responsabile della vigilanza della Federazione di Milano che lo accompagnava - si insinuò il dubbio che non di provocazione si trattasse, ma di qualcosa di terribile che stava anche dentro la nostra storia. Al termine venne intonato per la prima volta: “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer”, slogan che avremmo gridato nei cortei degli anni settanta in contrapposizione a chi inneggiava a Marx, Lenin e a Mao Tze Tung. Per il resto furono fugaci strette di mano in occasione di riunioni di partito a Milano e a Roma negli anni settanta e qualche scambio veloce in Commissione Esteri alla Camera dei Deputati, quando mi promise che avrebbe trovato l’occasione per venire a Bergamo per un discorso di rievocazione di quello di Togliatti al Teatro Duse.

La riflessione dopo il colpo di stato in Cile. Enrico Berlinguer si impose all’attenzione del Partito e della più vasta opinione pubblica con la riflessione politica e strategica all’indomani del colpo di stato in Cile nel settembre del 1973. Anche se da tempo egli affermava l’impraticabilità di un “governo delle sinistre del 51 per cento”, l’eco dell’intervento fu enorme. Dentro e fuori il partito fu letto come un cambiamento di passo e di linea, oltre la strategia togliattiana, con al centro l’esigenza vitale per la democrazia italiana di un rapporto e di un reciproco riconoscimento fra le grandi forze politiche di ispirazione popolare: cattolico democristiana, socialista e comunista. Ciò anche  offrire uno sbocco alle novità che maturavano nella società italiana, contro i pericoli di riflusso reazionario,  e per dare al PCI un ruolo sempre più incisivo.

La grande maggioranza del gruppo dirigente bergamasco sposò la strategia del “compromesso storico”, traendone incoraggiamento per una politica di apertura verso settori del lavoro autonomo e dell’impresa, soprattutto verso il mondo giovanile proveniente dalle diverse realtà cattoliche, specie in zone dove il PCI era relegato ad un ruolo minoritario e di sola testimonianza.

In quegli anni entrò nel partito una vera e propria leva Berlinguer. Gli iscritti passarono dai poco più di seimila dei primi anni settanta ai quasi diecimila e cinquecento del 1979. Le sezioni arrivarono a 203 e si giunse, credo nel 1976, ad organizzare 145 Feste dell’Unità, oltre a quella provinciale sugli Spalti di Sant’Agostino. Non mancò uno straordinario impegno di accompagnamento grafico, da parte di un gruppo di giovani appassionati sotto la guida di Aldo Gobbi.

Lo sforzo di conquista e di orientamento politico, che oltre a decine di dirigenti di base vedeva impegnati più  di 15 funzionari, fu massiccio: obiettivo centrale  era la trasformazione  di un partito schierato forzatamente sulla difensiva in un partito più positivo, di proposta, con una cultura dialogante e di governo. Questo atteggiamento giungerà al culmine con il discorso di Berlinguer all’Eliseo nel gennaio del 1977, quello detto dell’”Austerità”.

Ne discese un lavoro intenso in molte direzioni: il contributo al rafforzamento delle associazioni degli artigiani, dei commercianti e dei coltivatori diretti (ricordo fra tutti l’impegno di Carlo Paratico fra i commercianti e del giovane Giuseppe Vavassori, ancora oggi figura preminente nella CNA); la collaborazione stretta con la Magistratura e con le forze dell’ordine nella lotta al terrorismo; l’elaborazione di proposte sulle politiche industriali (elettromeccanica e siderurgia in particolare) per la difesa e la riqualificazione dei punti forti dell’apparato produttivo provinciale; il confronto non indolore con il Sindacato al quale si richiedeva un salto culturale e di atteggiamenti  che si rivelò  molto difficile.

I nuovi simboli. Si lavorò anche sul piano dei simboli e delle effigi: non fu facile sdoganare termini come patria, molto usato da Palmiro Togliatti, ma indigesto alla base comunista; o esporre il tricolore insieme alla bandiera rossa nelle Feste dell’Unità. Nella sede di un grande paese della Valle Seriana, che poi era una stanza nella casa del Segretario, campeggiava il ritratto di Stalin, e, durante le riunioni con due ceri accesi. Si può immaginare la reazione, ma anche la comprensione e la pazienza, di quei giovani che entravano per la prima volta a contatto con il PCI con tutt’altra cultura e che seppero comprendere e gradualmente persuadere, fino a prendere in mano la direzione della sezione. In generale tuttavia la grande maggioranza dei dirigenti più anziani guardò con gioia alle energie fresche, incoraggiandole a prendersi da subito gli incarichi e le responsabilità principali.

Questa azione fu sostenuta dai dirigenti nazionali, fra gli altri vennero non poche volte a Bergamo Fernando di Giulio, Ugo Pecchioli, Eugenio Peggio, Luciano Gruppi, Luciano Barca, Alessandro Natta, Aldo Tortorella, Gerardo Chiaromonte, Paolo Bufalini ed Emanuele Macaluso. Con Bufalini e Chiaromonte nacque un rapporto personale che proseguì fino alla loro morte. L’amicizia con  Emanuele continua a gratificarmi e la sua freschezza e lucidità a sorprendermi.

Berlinguer dette un’impostazione cauta alla campagna per la difesa della legge sul divorzio. Prudente e preoccupato dell’esito lo ero di mio, anche per i contatti frequenti con Paolo Bufalini. Vi era molta attenzione alle riserve del mondo cattolico e gli argomenti che molti di noi usarono erano lontani dalle impostazioni radicali e libertarie. Forse fu solo su questo terreno che in quegli anni differenziammo dai socialisti bergamaschi.

Nei confronti delle sinistre estreme la polemica fu invece frontale, qualche volta con la rottura dei rapporti interpersonali. Ancora anni dopo fui fra i pochi a non firmare l’appello “Edo libero”, per la scarcerazione di Edo Ronchi, arrestato con l’imputazione di aver lanciato una bomba incendiaria contro la Prefettura di Bergamo nel 1976. Con Edo, che sarà un ottimo Ministro dell’Ambiente,  ho stabilito poi un’amicizia sincera.

Le manifestazioni per il Venticinque Aprile ed il Primo Maggio dei secondi anni settanta furono un incubo. Spesso si rischiò lo scontro. Da una parte le bandiere unitarie dei partiti e dei sindacati, con tanto di servizio d’ordine, dall’altra cortei aggressivi, con frange provocatorie. Spesso ci gridavano: “Bee, Bee, Berlinguer” o  “IL PCI non è qui, lecca il c… alla DC”. Da una parte e dall’altra c’erano sfumature e differenze, ed anche un lavoro di mediazione, soprattutto da parte dei dirigenti e militanti del PDUP Manifesto.

Sull’atteggiamento intransigente nei confronti del terrorismo non mancarono incomprensioni anche con alcuni Consigli di fabbrica e con settori del movimento sindacale, che ci accusavano di semplicismo, di mettere nello stesso sacco terrorismo e legittime critiche radicali al sistema. Il nostro intento era quello di togliere ogni sacca di consenso sociale al terrorismo. Ritenevamo, con Berlinguer,  che non ci fossero “compagni che sbagliano”, ma nemici che non sbagliavano,responsabili di una catena interminabile di morti, dell’assassinio di tante persone per bene, di tanti riformisti in ogni settore. Sarebbero giunti nel gennaio del 1979 ad assassinare a Genova l’operaio comunista Guido Rossa.

Il dibattito dei comunisti bergamaschi. Il dibattito interno ai comunisti bergamaschi rimase comunque vivace e non mancarono i contrasti. Perplessità venivano manifestate in privato sia da Armando Cossutta, spesso presente a Bergamo per via della sua amicizia con Briseide Baroni. Giuseppe Chiarante, Deputato eletto a Bergamo, arrivava in treno da Roma ogni quindi giorni il venerdì pomeriggio. Si metteva all’enorme tavolo di tek della Segreteria e scriveva meticolosamente gli interventi per le iniziative del fine settimana. Ogni tanto si interrompeva per scambiare qualche opinione e non mancava di manifestare – con il garbo e l’amabilità che lo contraddistinguevano - le sue perplessità su alcune mie scelte e atteggiamenti. Principalmente sull’eccesso di fiducia sull’esito della sfida unitaria alla DC. Al contrario egli riteneva che la maggioranza della DC non era disponibile al rinnovamento e che avrebbe sfruttato la disponibilità del PCI solo per logorarlo.

Anche Luigi Marchi, già Segretario della CGIL e poi prestigioso Capogruppo al Consiglio Regionale nella fase costituente della Regione Lombardia, che veniva a trovarmi il sabato mattina, era molto sensibile alle inquietudini e alle critiche presenti nel sindacato e fra i giovani, e in alcune sezioni, come quella di Caravagggio. Mi diceva che l’eccesso di coerenza era un’ingenuità” e mi raccomandava di non essere “più realista del re”.

Ma il fuoco amico più  implacabile fu quello di padre Davide Maria Turoldo - peraltro grande estimatore di Berlinguer - che andavo a trovare ogni tanto a Fontanella con Elena Gandolfi, che ne curerà l’opera dopo la morte. Venne un paio di volte anche in Federazione. Una volta al ritorno da un viaggio di scambio e di studio in Unione Sovietica per il quale gli avevamo offerto il biglietto di viaggio. In quell’occasione giunse a paragonare l’abbraccio del Pci alla DC a quello suicida del maschio con la mantide religiosa.

I rapporti con la DC a livello nazionale si andavano comunque logorando e nel PCI e nel movimento sindacale il malessere cresceva. Emblematica ne sarà la rappresentazione di Forattini su la Repubblica, raffigurando Berlinguer in pantofole e ricca vestaglia che osservava un corteo operaio da dietro una finestra chiusa.

Nei mesi che successero al rapimento di Aldo Moro i rapporti con molti dirigenti provinciali della DC, anche su piano umano, si intensificarono. La morte di Aldo Moro  interruppe definitivamente un processo che, ad avviso di molti di noi,  avrebbe visto il PCI parte della coalizione di governo o di un’opposizione candidata a governare e avrebbe reso possibili quegli ulteriori cambiamenti interni  che arriveranno solo in ritardo dopo la caduta del muro di Berlino.  Ma con la sconfitta della strategia di Berlinguer non cominciò a mio avviso solo il sussultorio declino del PCI, ma venne frustrata una possibilità reale di rinnovamento del sistema politico italiano.

Il discorso di Genova del 1978. E se per me il discorso al Festival nazionale dell’Unità a Genova nel settembre del 1978, in cui Berlinguer abbandonò una strategia di alleanze politiche e sociali ampie in favore di qualcosa di più ristretto e prevalentemente movimentista, fu una doccia gelata, da altri venne accolto con sollievo, come una liberazione. Sul pulman del rientro a Bergamo si accesero le prime discussioni ed io, contro ogni evidenza, abbozzai un’interpretazione tutto sommato continuista delle posizioni del Segretario.

Il giorno dopo riuscii a parlare con Gerardo Chiaromonte e ne ottenni considerazioni imbarazzate. Mi disse che nemmeno a Berlinguer era ancora chiaro lo sbocco possibile del nuovo cammino. Espliciterà il suo dissenso nella Direzione del PCI del gennaio del 1979, votando insieme a pochi altri contro la decisione di ritirare il PCI dalla maggioranza di governo.

Ancora nel giugno del 1979 in una lettera invitavo la Segreteria nazionale del PCI a non trarre conclusioni affrettate dalle chiusure e dall’involuzione della DC e a sfidarla raddoppiando l’iniziativa unitaria verso il PSI. Pesava forse anche il fatto che a Bergamo non sperimentammo accordi al ribasso con la DC (non c’erano né numeri né condizioni per essere indotti in tentazione) e dove ci alleammo, ad esempio a Lovere, lo facemmo con piena dignità e con risultati riconosciuti.

I primi anni ottanta furono difficilissimi. Il PCI era su un binario morto. La DC aveva sostituito Zaccagnini. Lo stato dei rapporti con il PSI non permetteva nemmeno di pensare a un’alternativa di sinistra o a un’unità della sinistra per confrontarsi uniti con la DC. Mi aspettavo sempre però  un nuovo scatto illuminante del Segretario, mentre il mio disagio aumentò di fronte alla sottolineatura di una nostra diversità quasi genetica, fino alla sanzione definitiva della nuova linea, l’Alternativa Democratica, nel novembre del 1980 dopo il terremoto in Irpinia.

Le critiche di Beppe Chiarante al fatto che non traevo tutte le conseguenze della svolta si facevano sempre più insistite, al pari delle tensioni interne. Chiarante criticò il carattere solo esortativo verso il PSI nella mia relazione al XV Congresso agli inizi del 1983 (contravvenendo alla prassi non gliel’avevo fatta leggere in anticipo). Nelle conclusioni riequilibrò con gli interessi, attaccando duramente i socialisti. Seppi che nelle settimane successive furono lui e Luigi Marchi a sollecitare il ricambio del Segretario, proponendo la mia candidatura alla Camera dei Deputati.

In conclusione, come tanti comunisti e tanta parte del popolo italiano, posso dire di aver creduto in Berlinguer, quando fui d’accordo e anche quando non fui d’accordo con lui. Su questo ha influito la stessa natura del PCI – nel PCI si stava con il Segretario, punto e basta –, ma più di tutto contarono la persona e lo stile, il carisma in sintonia con sentimenti popolari diffusi, che induceva ad una fiducia incondizionata e ce lo fecero amare al di sopra di ogni altro dirigente, anche più di Palmiro Togliatti.

Credo che ogni generazione debba avere il diritto alla nostalgia per gli anni giovanili ed anche a una memoria un po’ selettiva ed indulgente. Altri ricorderanno a buon diritto un altro Berlinguer, ma tutti gli dobbiamo la definitiva e intransigente adesione ai principi democratici e a  una cultura dialogante e riformista, a prescindere da dove ci siamo successivamente collocati dentro e fuori il PCI e in ciò che ne è seguito.

 

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