Tutti usiamo le parole macedonia Sì, ma cosa sono esattamente?
«Su, andiamo all'apericena, che se no si fa tardi. Dai, lascia stare quel mapo!». «Come? Di già? Ma guarda che non ci andiamo mica a dorso di zebrallo». Ovviamente nessuno parla così – almeno, non a tutti capita di nominare lo zebrallo a un giro di frase dall'apericena -, ma l'esempio torna utile per illuminare quella zona della grammatica italiana che va sotto il nome di “parole macedonia”. Sono un po' come le parole composte – tipo capostazione, portapenne e via dicendo -, quindi uniscono due parole autonome per formarne una terza con un significato che, in un certo senso, “riassume” quello dei termini da cui è formata. Le parole macedonia, però, perdono per via qualche sillaba o qualche lettera. L'apericena è un aperi(tivo) che diventa una cena; un mapo è il frutto che si ottiene ibridando un ma(ndarino) e un po(mpelmo); lo zebrallo è un incrocio tra una zeb(ra) e un (cav)allo.
Ce ne sono molte altre, ovviamente. Il “famosissimo” tigone è una tigre e insieme un leone, la quallina è una quaglia e una gallina, la kiwana è un kiwi coniugato a una banana. Sono parole che si prestano benissimo ai giochi linguistici; non è un caso che C.S. Lewis, quello di Alice nel paese delle meraviglie e di Al di là dello specchio, ne facesse un ampio uso, solo che gli inglesi le chiamano portmanteau words. Le parole macedonia sono interessanti anche per un altro motivo: raccontano un po' come evolvono le nostre abitudini, i nostri costumi, insomma la nostra società. L'apericena, ad esempio, è nata probabilmente a Torino all'inizio degli anni Duemila, invece la “fantascienza”, il noto genere letterario e poi cinematografico, è comparsa negli anni Cinquanta, in concomitanza con la diffusione dei libri dedicati a pianeti lontani, alieni e affini. Negli anni Sessanta, invece, si è cominciato a parlare di “cantautore”. Era, infatti, la stagione dei grandi parolieri.
Tutti questi neologismi non piacevano affatto a Bruno Migliorini, il celebre filologo che fondò lo studio della storia della nostra lingua, con la prima cattedra universitaria creata ad hoc a Firenze – e dove, se no – nel 1938. Migliorini diceva che “cantautore” era un «neologismo orrendamente coniato». Chissà cosa avrebbe detto allora dell' “aperisushi”, dell' “aperisfizio” e dell'“aperimerenda”. Per il dotto linguista, le parole macedonia sono «una o più parole maciullate», le quali «sono state messe insieme con una parola intatta». Ai suoi tempi, del resto, ci si era proprio appassionati a questo tipo di termini, molto maneggevoli per le denominazioni industriali e per le réclame pubblicitarie. Come gli americani usavano e usano le sigle, così da noi si usavano i portmanteau. Il Cogepesca era la Confederazione generale della pesca, mentre il Sepral era il Sezione provinciale dell’alimentazione. C'era poi il “cioccoblocco”, un tavoletta di cioccolato pubblicizzata fino agli anni Ottanta; oggi abbiamo il “videotelefonino” e parliamo poco, ma con affetto, della “musicassetta”.
Anche se preferiamo, ora, importare le parole dall'estero, piuttosto che inventarcene delle nuove. Sappiamo cosa sono il brunch, l'austerity, il doping e il contest, il teamwork e il self-building. Chissà cosa avrebbe detto Migliorini, di tutto questo. Insomma, c'è da credere che - quasi quasi – avrebbe potuto persino rivalutare le parole fatte a pezzetti. Usanza barbara, sì, ma - almeno - completamente italica.