L'incanto di Crespi vista da un drone
Video di Diego Bedeschi.
Crespi d’Adda in volo dall’alto è, ovviamente, una meraviglia. Ovviamente, perché già coi piedi per terra si intuisce – e se non si intuisse lo si è imparato a scuola nelle svariate gite al villaggio industriale – che la mano umana qui ha seguito uno splendido pensiero raziocinante. Una geometria impeccabile, la bellezza della matematica.
Calza bene la musica di sottofondo, che è quella degli opening titles de La fabbrica di cioccolato, la sequenza iniziale in cui le macchine di Willy Wonka creano le tavolette dolci e vi nascondono il biglietto d’oro. Calza bene, perché ricorda la meccanica armonia dei telai e delle loro braccia lignee e metalliche a lavorare il cotone. Una volta il cuore pulsante del paese, dove furono impiegate, a fine anni Venti, quasi 3600 persone in un anno.
C’è tutto, dall’alto: le casette quadrate dotate di orto, le ville via via più belle e via via più in alto dei cittadini importanti, lo spaccio alimentare, l’ospedaletto, l’albergo, il dopolavoro, i bagni, le docce, la piscina, i lavatoi, il teatro. E poi, i centri fondamentali, che facevano di Crespi quell’esperienza vitale chiusa tutta lì, un percorso teorizzato dal padrone e destinato ad accompagnare i suoi abitanti, giorno dopo giorno, dal primo respiro alla morte: la scuola, la chiesa (bramantesca, su modello di quella di Busto Arsizio, da cui il fondatore, Cristoforo Benigno Crespi, proveniva), la fabbrica, il cimitero. Vent’anni prima che Ebenezer Howard teorizzasse la «città giardino» (Letchworth è del 1903), qui c’era già il prodigio.
Qualche elemento verticale a salire, nel reticolo impeccabile di strade e forme tonde, e architetture lineari, proporzionate, così Inghilterra dell’Ottocento: la ciminiera, le torri del castello, la lanterna della chiesa, l’esotica e originale piramide-famedio dei Crespi. E dietro, sui due orizzonti, il Brembo di qua e l’Adda di là, perché Crespi sta sulla punta sud dell’Isola bergamasca, e da lì si può solo tornare indietro.
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Non c’è bisogno di ricordare quanto sia importante, Crespi. Pure all’Expo 2015, nel Padiglione Zero, a simboleggiare le architetture della rivoluzione industriale c’era, come tappa storica fondamentale, posato tra le factory inglesi e le pampas argentine, il plastico del villaggio bergamasco Patrimonio Unesco dal ’95. Forse val la pena raccontare, però, alcuni passaggi storici e alcune curiosità che potrebbero sfuggire ai più.
Innanzitutto, i Crespi. Venivano da Busto Arsizio e il primo si chiamava Cristoforo Benigno pure. Tale Cristoforo Benigno, nel 1878, si comprò 85 ettari di terra vicino all’Adda (fondamentale per produrre energia necessaria al cotonificio) e iniziò – in questo piccolo paese – la rivoluzione industriale. Poi lasciò in eredità la sua opera ben riuscita al figlio Silvio Crespi. I Crespi vivevano nel castello a cui oggi non si può più accedere e fecero tutto con molto buon senso; pure la chiesa, bramantesca, su modello di quella di Busto Arsizio. E tranne la tomba di famiglia: quella ziggurat con scalone monumentale, di stile eclettico e di gusto esotico, con esedre che, in teoria, simboleggiano idealmente l'abbraccio della famiglia Crespi a tutti gli operai. Alle minuscole croci ordinate degli operai.
Gli operai di Crespi, negli anni.
Per il resto, comunque, la loro impronta sapiente si vede ovunque, ovunque il loro sguardo vegliava sul paese: Crespi fu il primo villaggio dotato di illuminazione pubblica con il sistema moderno Edison e i fondatori vi fecero pure installare una linea telefonica autonoma che li tenesse in contatto con la loro residenza di Milano (da cui il prefisso milanese e non bergamasco). E poi, nella scuola dei figli dei dipendenti, tutto – dalle penne ai grembiulini – era pagato dalla fabbrica, e nei momenti liberi si poteva pure fare un tuffo – gratis – in una piscina al coperto e riscaldata.
Ai Crespi, insomma, piacevano le cose belle. Cristoforo Benigno, poi, era addirittura collezionista d’arte: diversi quadri della sua galleria, come La Schiavona di Tiziano, sono ora conservati nei più importanti musei del mondo.
Ed erano tutt’altro che una famiglia di provincia. Benigno Crespi, fratello del fondatore, consentì alla famiglia di divenire proprietaria del Corriere della Sera già ai tempi della fondazione del giornale. E il figlio, Silvio Benigno, rappresentò l’Italia fra i grandi della terra di Trattati di Versailles (fine Prima Guerra Mondiale). E fu lui, che amava le auto, a promuovere, negli anni Venti, la costruzione delle prime autostrade d’Italia e dell’autodromo di Monza.
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Cosa resta della loro opera, considerato che dal 1932 Silvio perse il controllo della fabbrica, già unitasi ad altri cotonifici in crisi (per approfondire le vicende societarie, qui), dal 1972 l’azienda fu liquidata dai suoi azionisti e dal 2003 lo stabilimento non è più funzionante? Tutto, rimane, di fatto, a parte gli interni della fabbrica, saccheggiati negli anni. Quello che si vede oggi di Crespi, è intatto dal 1927. Merito anche dell’associazione culturale locale Centro Sociale Fratelli Marx, che, a inizio anni Novanta, si oppose a un piano regolatore che prevedeva nuove edificazioni nell’area del villaggio operaio. Lo fece in modo intelligente e lungimirante, presentando, nelle persone di Andrea Biffi ed Enzo Galbiati, un dossier di candidatura a Patrimonio Unesco, ottenuta poi il 5 dicembre 1995. Due i criteri soddisfatti: offriva – si legge sul sito ufficiale - «un esempio di complesso architettonico capace di illustrare un periodo significativo della storia umana e di insediamento umano rappresentativo di una cultura, divenuto vulnerabile per l’impatto di cambiamenti irreversibili». Quell’aria di una cosa che si conserva così, in silenzio. Come sempre, con ordine. Aspettandone la rinascita.