L'anniversario

Antonio Percassi, dieci anni di saggezza e follia alla guida della Dea (raccontati da Spagnolo)

Il direttore operativo nerazzurro è il braccio destro del Pres, subito dopo Luca Percassi. In questa bella intervista ci ha raccontato un decennio di sfide, ambizioni, poche delusioni e tantissimi successi

Antonio Percassi, dieci anni di saggezza e follia alla guida della Dea (raccontati da Spagnolo)
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di Fabio Gennari

Il 3 giugno, Antonio Percassi compie dieci anni da presidente dell’Atalanta. Per celebrare l’anniversario abbiamo deciso di farci raccontare da Roberto Spagnolo, uomo di fiducia del numero uno nerazzurro, come è cambiato il “Mondo Atalanta” nell’ultimo decennio.

Ci racconta chi è Antonio Percassi?

«Un grande uomo. Ma non sono io a dirlo, sono i fatti».

Qual è la sua qualità migliore?

«Saper capire e arrivare prima degli altri in qualsiasi situazione e su qualsiasi problema».

È difficile lavorare con lui?

«Molto, perché anticipa sempre tutti e tenere il suo passo è complicato».

Spagnolo e Percassi davanti alla nuova Curva

Lei non è arrivato con Percassi, era già all’Atalanta…

«La mia storia con i nerazzurri iniziò nel 2005, con Ivan Ruggeri. Era un impegno part-time. Prima della fine della stagione 2009/2010 avevo comunque rassegnato le dimissioni. Conoscevo Percassi perché stavo lavorando per loro al grande centro commerciale che hanno costruito in Sicilia. Quando chiuse la trattativa con i Ruggeri, Antonio Percassi mi chiamò e mi disse se ci potevamo vedere a Zingonia: era il 4 giugno 2010, da poche ore l’Atalanta aveva cambiato proprietà e io venni subito coinvolto».

E quindi?

«Durante quel primo incontro a Zingonia, il presidente mi disse: “C’è da ribaltare tutto”. E osservando il perimetro dei campi di calcio notò le strade e le auto sfrecciare e disse: “Come si farà ad allenarsi qui... Chiudiamo tutto con delle piante”. Così, io che non taglio neppure l’erba a casa mia, mi misi a cercare trecento alberi di sette metri. Primo compito, chiudere Zingonia. Secondo compito, sistemare le comproprietà. Ne avevamo una marea, Giacobazzi e Osti non lavoravano più per noi, e io non avevo ancora un gruppo di dirigenti, quindi me ne sono occupato direttamente».

Quante volte Percassi la chiamava al giorno?

«Una ventina, fino all’una di notte. D’altronde i Percassi avevano anche le loro aziende da mandare avanti».

È un uomo che si arrabbia?

«No, è un uomo che non ha bisogno di arrabbiarsi per farti capire che è arrabbiato».

Dieci anni dopo che cosa è diventata l’Atalanta?

«Qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare. Le idee che Percassi ci trasmetteva dieci anni fa, dal settore giovanile alle strutture, alla squadra in A, si sono realizzate tutte. Con gli interessi».

Nel primo anno avete tenuto i giocatori forti, Bellini, Padoin e preso Colantuono.

«L’obiettivo era tornare in A e rimanerci. Per fare questo Percassi ha investito soldi importanti».

Ma Antonio Percassi vedeva già l’Atalanta di adesso?

«Magari non in Champions, ma di sicuro con una struttura solida e che si potesse autofinanziare».

Debutto Champions

Accanto a lui è cresciuto il figlio Luca...

«Luca è cresciuto in simbiosi col papà, finché a un certo punto il presidente ha visto che aveva capacità di manager, oltre a essere un intenditore di calcio. E gli ha dato grande spazio».

Che differenza c’è tra i due?

«Antonio è un intenditore di calcio, ma ancora più un tifoso; Luca è più freddo, meno emotivo, ma capisce altrettanto il calcio».

A livello nazionale è stata capita l’importanza di questa famiglia per il calcio italiano?

«Sì, l’hanno capito, e secondo me dà pure un po’ fastidio, perché loro non vedono solo il business».

Abbiamo visto Antonio commuoversi spesso ultimamente. È invecchiato?

«Non molto direi, perché è di due anni più giovane di me, e quindi è giovanissimo. Però quelle lacrime sono la passione, il cuore atalantino. È l’emozione di un vero tifoso. E poi lui sa quanti sacrifici, quanto tempo, quanti soldi e quanta tensione gli sono costati certi risultati».

Sul più bello, il Covid ha interrotto tutto.

«Un po’ di delusione rimane dopo Valencia, ma la tragedia che è successa nella Bergamasca mette tutto in secondo piano. Il Covid ha portato anche tra noi tristezza e sofferenza, abbiamo perso collaboratori e familiari di dipendenti. Tutti i giorni Percassi mi diceva: “Non è possibile” e lo sentivo spegnersi. Adesso va molto meglio».

E ora?

«C’è l’occasione di aiutare questa terra a rinascere e l’Atalanta ci sarà».

Cosa state pensando?

«Di dare qualcosa ai bergamaschi perché tornino, magari con le famiglie, allo stadio».

Che cosa la colpisce del presidente?

«Mi sorprende sempre la capacità di non essere invadente nei confronti della squadra e di capire quando c’è davvero bisogno di un suo intervento. E quando interviene, mi creda, fa cambiare la prospettiva. Ho avuto tanti presidenti e quando parlavano io guardavo le facce dei giocatori. La faccia dei giocatori dell’Atalanta quando parla Percassi non l’ho vista mai da nessuna parte».

Però parla poco.

«Mediamente due o tre volte l’anno, ma sono delle scosse. Parte piano e alza la voce in un crescendo rossiniano».

La partita che più lo ha esaltato?

«Il passaggio ai quarti di finale di Champions, nessun dubbio».

Percassi va spesso contro la logica.

«E io lo apprezzo, ma non è detto che sia sempre d’accordo. Il più delle volte ha ragione lui, ma sullo stadio, che è una mezza follia, avevo ragione io, e adesso lo ammette. Non mi credo un padreterno, ma non sono uno “yes man”, do dei consigli e so fin dove posso arrivare».

Qualche curiosità?

«I Percassi sono molto scaramantici. Dal posto in tribuna vuoto vicino al presidente alla continua verifica della posizione in classifica (“Ma siamo salvi? Matematicamente?”), fino al fatto che da dieci anni sono io ad andare a prendere il figlio Luca a casa prima di ogni partita. Sono tutti dei riti, guai a rinunciarci».

È ringiovanito con il Gasp?

«È ringiovanito grazie a Gasperini e a Spagnolo. Fosse stato solo per il Gasp, credo che sarebbe addirittura invecchiato!».

Come vede i prossimi dieci anni?

«Dovete chiederlo a qualcun altro, perché io sicuramente non ci sarò. Ma il segreto è non perdere mai la propria dimensione. Con Antonio e Luca Percassi al timone, non c’è il rischio di voler imitare realtà più grandi con conseguenze che poi ti creano boomerang pericolosissimi. L’equazione che si fa spesso è: “Siamo in Champions, servono giocatori da Champions”. Io dico che è meglio avere buoni giocatori che grazie al lavoro del tecnico diventano elementi di altissimo livello».

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