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Il bell'articolo de L'Ultimo Uomo che racconta la vita del Bocia (come fosse un film)

Il giornalista e scrittore Patrizio Bati, sull'apprezzata testata sportiva online, ripercorre (in prima persona) la storia del mitico capo ultras atalantino

Il bell'articolo de L'Ultimo Uomo che racconta la vita del Bocia (come fosse un film)
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La testata online L'Ultimo Uomo è ormai unanimemente riconosciuta come una delle più interessanti (e lette) in ambito di analisi e storytelling sportivo. Difficilmente si trovano pubblicati articoli banali e, soprattutto, regala sempre storie o punti di vista curiosi. E proprio oggi, 1 maggio, il sito ha pubblicato un bell'articolo intitolato Vita del Bocia - Un racconto sullo storico ultras della curva dell’Atalanta.

A Bergamo più o meno tutti sanno chi è il Bocia, al secolo Claudio Galimberti. C'è chi lo ama e chi lo ritiene un violento, un ignorante. C'è chi lo idolatra e chi lo sbatterebbe in galera gettando la chiave. Non sta certo a un articolo definirlo. Il bello del pezzo di Ultimo Uomo, però, è lo stile con cui è stato scritto: narrativo, come fosse la trama di un libro o di un film (e chissà mai che qualcuno non prenda davvero spunto...).

A firmarlo è Patrizio Bati, che non a caso è anche uno scrittore: nel 2019 ha pubblicato con Mondadori il romanzo Noi felici pochi, che presto diventerà un film. Scrive anche per La Stampa e per Domani. Per L'Ultimo Uomo, ha provato a ripercorrere alcuni passaggi salienti della "trasformazione" di Galimberti nel Bocia raccontandoli in prima persona. Passaggi che, per chi ha vissuto e vive l'Atalanta, non sono certo sconosciuti. Abbiamo deciso di riproporvi parte di questa lettura e rimandarvi poi all'articolo integrale, perché secondo noi merita.

1988, Catanzaro-Atalanta.

Quello che conta, nella vita, è fare le cose al momento giusto. Se gliel’avessi chiesto in una qualsiasi altra circostanza, mio padre non mi avrebbe mai dato il permesso di seguire l’Atalanta in trasferta a Catanzaro… il giorno prima dell’esame di terza media.

Ma io la domanda gliela faccio durante la finale degli Europei, immediatamente dopo l’incredibile tiro con cui Van Basten batte il portiere russo Dasaev, uno dei gol più belli della storia del calcio.

«Vai, vai. Non rompere i coglioni!» mi risponde, sovrastando Bruno Pizzul.

Penultima partita di campionato.

Atalanta terzo posto, Catanzaro quarto: scontro decisivo per la promozione in Serie A.

Appuntamento sabato pomeriggio al Piper, bar di ritrovo delle Brigate Neroazzurre. Siamo undici.

Ore 19. Stazione di Bergamo: regionale per Milano.

Ore 20. Stazione di Milano: diretto per Lamezia Terme.

Ogni domenica l’Italia è attraversata da carovane di tifosi.

A Parma, incrociamo i bolognesi. A Roma, i laziali. Alla stazione di Campi Flegrei, dove un guasto al locomotore ci costringe a una sosta imprevista, l’incontro con migliaia di reggini, diretti a Perugia per lo spareggio con la Virescit Boccaleone, seconda squadra di Bergamo.

Fa caldo. Scendiamo. Si accorgono delle nostre sciarpe. Più di cinquanta di loro si compattano e ci vengono incontro.

Il bimbo! Così chiamiamo lo striscione del gruppo, per fortuna il bimbo è al sicuro nello zaino di Giorgio, un metro e novanta, camionista, il nostro amico più fidato.

Serriamo i ranghi, pronti ad affrontarli. Loro, pronti a rincorrerci, quasi rinculano vedendo che noi non arretriamo. Veloce scambio di cinghiate e pugni. Alimentata dall’arrivo dei rinforzi, la sproporzione tra i due gruppi cresce al punto che – senza mai dargli la schiena – ripariamo in un sottopassaggio. Li aspettiamo alla base delle scale. Nessuno dei reggini però scende ad affrontarci.

Stazione di Lamezia Terme: al momento di prendere il regionale diretto a Catanzaro incontriamo una trentina di Wild Kaos, altro gruppo della curva atalantina. Assurdo non essere partiti tutti insieme… ma sono anni in cui, purtroppo, ogni gruppo si comporta come entità a sé stante abdicando a una visione di tifoseria unitaria.

Con noi ci sono anche tre ultras del Cosenza, a cui siamo legati da un reciproco rispetto, risalente ai tempi di Padre Fedele (storico tifoso della curva rossoblu e organizzatore, dopo la tragedia dell’Heysel, del primo raduno dei gruppi ultrà italiani).

Su un autobus mandato dal prefetto – scortati solo da una volante – attraversiamo, in quattordici, il centro di Catanzaro. Porte spalancate per reagire al primo lancio di sassi.

Superati i cancelli dello stadio, da fuori una delegazione di tifosi rivali ci chiede di parlare.

Rete di recinzione a farci da divisorio come grata di confessionale.

Vogliono i cosentini.

Col cazzo che glieli diamo. Ormai siamo fratelli.

2 a 0 per il Catanzaro. La Serie A dobbiamo giocarcela all’ultima giornata.

Mentre della partita non ricordo quasi niente, da quando risaliamo sull’autobus, ogni fotogramma mi resta impresso nella memoria, ogni singolo fotogramma di quella strada ripida e tortuosa che dallo stadio conduce alla stazione, ogni insulto, ogni gesto, ogni sasso scagliato da mani protette dal buio, perfino un vaso di fiori.

Mentre i miei compagni di classe, alle prese con l’esame di terza media, scrivono obbedienti il loro temino sulla nube di Chernobyl, io e gli altri dieci atalantini siamo ancora sul treno che da Lamezia ci riporta a Milano.

Quell’anno, 1988, di tutta la terza B, sarò l’unico bocciato. (...)

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