Antiche processioni

«Dal caldo e dalla siccità liberaci o Signore». In Bergamasca sono tornate le rogazioni

Fino a qualche decennio fa si svolgevano in città e nei paesi per invocare la clemenza del tempo o il dono della pioggia. I ricordi degli anziani

«Dal caldo e dalla siccità liberaci o Signore». In Bergamasca sono tornate le rogazioni
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di Bruno Silini

In Val d’Imagna guardano in cima al Resegone con la speranza, ormai frustrata, di intravedere un cumulo di nubi a coprire la successione seghettata delle vette. Scrutano, con il naso all’insù, fedeli a quella saggezza popolare che quande ol Resegù e l’gh’à sö ol capèl, mèt dó la ranza e tö sö ol rastèl (quando il Resegone ha il cappello, metti via la falce e prendi il rastrello). Però di “cappelli” carichi di pioggia in queste settimane non se ne vedono. Piuttosto aumenta la preoccupazione, non solo contingente e non solo in valle, della mancanza d’acqua e della conseguente siccità.

La scienza in questo caso è impotente a parte le torride previsioni dei portali meteo. Quindi, chi conserva ancora un minimo di senso religioso si affida alla preghiera e in particolar modo alle rogazioni: parola desueta ma rispolverata dagli scantinati dello Zingarelli per alcune iniziative in provincia, l’ultima ad Almè, per invocare il dono della pioggia. E così nel terzo millennio, votato alla retorica dell’homo technologicus, si riscopre gente sudata e salmodiante, in lenta processione dietro al preòst, a invocare la clemenza del cielo, la feracità della campagna e il benessere corporale.

Le rogazioni (dal latino rogare, chiedere pregando) altro non sono che processioni dove impetrare coralmente da Dio la protezione dei campi, delle piante e del bestiame contro i capricci del tempo come grandine, alluvioni e il loro contrario: la siccità. Furono introdotte a Roma nell’anno 816 da Papa Leone III e poi diffuse in tutta la cristianità. A fulgure et tempestate, a peste, fame et bello, libera nos Domine, Te rogamus, audi nos (Da fulmine e grandine, da peste, fame e guerra, liberaci Signore, Te lo chiediamo, ascoltaci). Era l’invocazione più nota delle rogazioni, suddivise in maggiori (il 25 marzo) e minori (i tre giorni precedenti la festa dell’Ascensione), che affondano le radici in epoche pagane antichissime e fatte proprie, poi, dal cristianesimo.

Pur essendo quasi scomparse, il Benedizionale revisionato nel 1984 da Papa Giovanni Paolo II prevede la loro celebrazioni in alcuni momenti particolari come questa vampa estiva senza groppi che reitera da giorni con il suo seguito di emergenze al pronto soccorso, ordinanze dei sindaci per limitare l’uso dell’acqua e l’assalto alla grande distribuzione per far scorte di minerale.

La signora Lisetta di Vertova, ottantenne vispa, le rogazioni della giovinezza se le ricorda tutte. «Il giorno di San Marco, il paese celebrava le rogazioni maggiori. Si andava fino agli oratori campestri portando in mano i broch ’e murù ossia i rami di gelso, le cui foglie costituivano l’alimento dei bachi da seta (i caalér), che venivano allevati nelle nostre case contadine. Allora erano quelli i bonus a sostegno del reddito familiare e troppa pioggia o cielo troppo asciutto erano grosse “sfighe”. Mi ricordo che il corteo dalla chiesa parrocchiale si spingeva fino al Serio raggiungendo l’antica cappella della Santa Croce».

Stessa storia in Valle Brembana: pratica talmente radicata da diventare tema centrale di un numero del bollettino curato dal centro storico culturale. (...)

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