Il desiderio di Francesco e Paolo, ragazzi con disturbi cognitivi e motori: trovare un lavoro
L'Associazione Genesis di San Pellegrino segnala un problema enorme: «La società dovrebbe fare rete: il lavoro dona autostima, è un'ulteriore preziosa cura»
di Giambattista Gherardi
L’Italia, come recita l’incipit della nostra Costituzione, è una Repubblica fondata sul lavoro. E il lavoro è garanzia primaria di autonomia economica e personale. Per molti di noi questo è un concetto ovvio e scontato, una fortuna che forse nemmeno sappiamo di avere. Per tanti altri, però, si tratta di un’utopia. Ci sono migliaia di giovani, donne e uomini che ogni giorno lottano per cercare di guadagnarsi il tanto agognato posto, in una società che troppo spesso non riesce ad assicurare i necessari appoggi. La loro colpa? Soffrire, o aver sofferto, di disturbi cognitivi o motori.
La possibilità di trovare un lavoro, un impiego, in questi casi è quasi nullo: vittime di una burocrazia che pianta paletti e limitazioni, anche laddove l’inserimento nel mondo del lavoro potrebbe essere determinante per far fruttare nuove potenzialità e consapevolezze in coloro che si trovano già ogni giorno a dover affrontare enormi difficoltà.
«Per questo, da sempre - spiega il dottor Gianpietro Salvi, neurologo e presidente a San Pellegrino Terme dell’Associazione Genesis, nonché della “Rete associazioni italiane per il recupero da handicap da trauma cranico e gravi cerebrolesioni acquisite” - le associazioni si battono affinché questi ragazzi possano essere inseriti nel mondo del lavoro. Cerchiamo di far conoscere la complessità del problema, favorendo la costruzione di buone prassi che possano essere d’aiuto nella integrazione lavorativa o nella acquisizione del ruolo di lavoratore. Cerchiamo di realizzare percorsi individualizzati considerando le potenzialità e le criticità delle disabilità e mettendo in rete le persone, le famiglie e le singole aziende. Dal punto di vista psicologico il primo problema è quello della ricostruzione della propria identità, in una situazione di estrema fragilità, vulnerabilità e difficoltà ad accettare gli insuccessi e riconoscere i propri limiti. Per questo abbiamo anche lavorato nei presidi riabilitativi, affinché le persone con queste disabilità possano fruire di percorsi riabilitativi che lavorino sul riconoscimento dei propri limiti, delle abilità residue, affinché possano adattarsi alle richiese del mondo del lavoro e della società in generale. Il lavoro è fonte di soddisfazione personale, di integrazione sociale e garantisce indipendenza economica, motivazioni altissime, che spingono questi ragazzi alla ricerca del loro posto nella società».
Simboli di questa silente lotta sono, per esempio, le storie di Francesco Rota (foto qui sopra, con la mamma) e Paolo Abeni (nella foto di apertura con il dr. Salvi e Mattia Brugali), due ragazzi appena trentenni le cui vite si sono incontrate fra i reparti di fisioterapia dell’Istituto Clinico Quarenghi di San Pellegrino Terme, dove Salvi è primario. Due storie diametralmente opposte: Francesco disabile fin dalla nascita a causa di un'emorragia cerebrale infantile che ha portato a una diparesi spastica, mentre Paolo è disabile da circa 16 anni, dopo essere stato coinvolto in un incidente stradale.
Ma si tratta anche di due storie con profonde similitudini, nelle difficoltà e nella voglia di conquistare la propria autonomia lavorativa. «Sono due ragazzi che hanno bisogno ancora di qualche aiuto, ma che sono perfettamente in grado di svolgere le mansioni che vengono loro assegnate - spiega Mattia Brugali, fisioterapista della Clinica che si è occupato del percorso di riabilitazione dei due ragazzi - e sono anche molto bravi a portarle a termine. Un giorno mi hanno raccontato questo loro desiderio di voler trovare un impiego lavorativo, sia per ottenere un piccolo reddito per loro stessi, sia per trovare un miglior inserimento sociale. La domanda sorge spontanea: è così difficile, per dei ragazzi che si riprendono da una cerebrolesione grave, tornare comunque ad avere una migliore qualità di vita e ritrovare la fiducia di guardare al futuro?».
Alle spalle dei due ragazzi ci sono le famiglie e, soprattutto, due mamme modello che da anni si trovano costrette a fare i conti con quella società forse un po’ troppo restia ad allungare la mano in aiuto. «Paolo è rimasto invalido a 16 anni - racconta Francesca Cervi, che insieme ai figli vive a Monticelli Brusati in provincia di Brescia - in seguito a un incidente con il motorino, che ha provocato una grave emorragia cerebrale». Paolo entra in coma, viene sottoposto a craniotomia, ma al risveglio nulla è più come prima: ha dovuto imparare nuovamente a parlare, a muoversi, a camminare. Paolo rappresenta la forza di volontà, la tenacia di voler a tutti i costi riprendere la propria vita in mano. Un lecito desiderio, che potrebbe coronarsi con un impiego lavorativo che da tempo mamma e figlio cercano incessantemente, ma con risultati vani.
«All’ultima revisione d’invalidità, è stato segnalato che Paolo non è idoneo a svolgere lavori a conduzione di macchinari, che affatichino la vista e l’udito, ma soprattutto non a contatto con il pubblico e con l’ausilio del servizio di mediazione. Esattamente queste ultime due note rappresentano per lui il vincolo, il limite che gli impedisce di trovare la sua tanto agognata autonomia». Certo, la manualità non è il suo forte, ma Paolo se la cava bene nella vita di tutti i giorni: recentemente ha conseguito la patente di guida e gioca a ping pong con una Onlus locale. Sa perfettamente relazionarsi con l’altro, tanto che per dieci anni ha frequentato un “percorso autonomia”.
«Non sappiamo più a chi rivolgerci - è l’amaro commento di mamma Francesca -, con le autorità amministrative è come trovarsi di fronte a un muro. Ho scritto lettere al sindaco, organizzato incontri, ma non abbiamo ottenuto nulla di concreto. Di recente ho contattato il Servizio di Piano della zona, nella speranza che qualcosa si muovesse». «Non voglio che nessuno mi regali niente - aggiunge lo stesso Paolo -. Voglio solo poter fare qualcosa, un lavoro che mi sia retribuito e mi permetta di comprarmi il cibo, pagarmi la fisioterapia, fare le mie cose: insomma, una vita normale. Non chiedo niente di più».
Una storia travagliata è anche quella di Francesco Rota, che da 32 anni lotta contro una diparesi spastica causata da un'emorragia cerebrale infantile. «La metà sinistra del corpo è paralizzata, così come è compromessa la manualità della mano sinistra - spiega la mamma, Giulia Pesenti -. Ha un ritardo cognitivo, è claudicante. E porta sulle spalle un verdetto: non è idoneo al lavoro». Ma Francesco ha tanta voglia di fare, di realizzarsi, anche solo per trovare un po' di benessere interiore. Un piccolo ruolo, un'attività, non per forza retribuita che restituisca un senso di responsabilità a chi già ogni giorno lotta per far sentire la propria voce.
«Abbiamo dovuto lottare per l'asilo, la scuola elementare, le medie e le superiori per ottenere un assistente educatore che lo affiancasse - racconta mamma Giulia -. Per fortuna, nel nostro caso, l'Amministrazione ci è venuta incontro contribuendo in parte anche ai costi della retta richiesta dal CSE (Centro Socio Educativo per Disabili, ndr) di Zogno, che Francesco ha frequentato per diversi anni». Proprio perché indicato come non idoneo al lavoro, la possibilità di essere assunto è nulla. Eppure Francesco è un ragazzo volenteroso, in grado di svolgere le piccole mansioni che gli vengono affidate, soprattutto se è di fronte allo schermo di un computer, una sua piccola, grande passione. «Ciò che mio figlio vorrebbe è un'opportunità. Poter avere anche lui un ruolo nella società di Val Brembilla, nostro Comune di residenza, al di là della retribuzione - è l'appello della mamma di Francesco -. Un impiego, anche piccolo, che lo faccia sentire realizzato e parte della società».
Ora Francesco è stato da poco dimesso dalla Clinica Quarenghi, dove si trovava in degenza in seguito a un intervento chirurgico e vorrebbe tentare una nuova strada nell'ambito del Centro Polifunzionale Olos di San Pellegrino Terme. Ma la paura più grande, sia per le mamme che per i due ragazzi, è quella del futuro, il cosiddetto “dopo di noi”. Chi si prenderà cura di loro? E perché, nel 2021, i disturbi cognitivi e motori rappresentano ancora un limite per la società, piuttosto che un punto di partenza attorno a cui sviluppare una nuova consapevolezza nei confronti di queste situazioni? Non vi è alcuna risposta a queste domande. Al loro posto, dubbi, indecisioni e timidi desideri.
«Il mio sogno - confessa Francesco - è quello di guidare la macchina. Ma non mi è permesso». «Vorrà dire che ti porterò in giro io», replica Paolo. Un normale scambio di battute. Ma che diventa la chiave di lettura di una realtà di cui si parla ancora troppo poco e di cui questi due giovani, così diversi eppure legati dalle stesse, inevitabili, difficoltà, potrebbero diventare i portavoce più importanti.