La speleologa Ottavia Piana racconta la disavventura a Fonteno: «Eccezionali i soccorritori»
La giovane esploratrice era rimasta bloccata in un abisso dopo essersi fratturata una gamba
Le operazioni di salvataggio di Ottavia Piana, giovane speleologa di Torbiato di Adro, nel Bresciano, hanno lasciato tutti col fiato sospeso per giorni. Si era fatta male a una gamba, rimanendo bloccata con il suo gruppo, all'abisso del Bueno Fonteno il 2 luglio, ma per tirarla fuori c'erano volute ore, con le squadre che si alternavano avanti e indietro dalla grotta, portandola su quella barella in cui, distesa, ha infine rivisto la luce del sole.
Com'è comprensibile, poco dopo l'accaduto la ragazza aveva preferito mantenere la riservatezza, volendo stare tranquilla e senza rilasciare troppe interviste o dichiarazioni alla stampa. Adesso, però, ha deciso di racchiudere il suo racconto e le sue sensazioni in una lettera, nella quale riporta anche i vari momenti vissuti in quegli anfratti nel ventre della terra della Bergamasca. Il testo, pubblicato su Progetto Sebino, è riportato anche in un articolo dei colleghi di PrimaBrescia.
Un'esplorazione cominciata in modo normale
Tutto è cominciato, quel giorno, alle 8.30 nella zona dell'abisso chiamata "Spalmer", in compagnia di altri tre esploratori:
«La zona era stata vista con le esplorazioni dei primi anni, quando c’era in giro molto di comodo e allettante per cui è comprensibile che risalite e disostruzioni seppur semplici, siano rimaste ai posteri. Scendiamo mediamente carichi: Fonteno Beach, le Fate, Sempre Dritto, Sifonik e nel salone prima che restringa prendiamo la corda per Spalmer, un po’ di cunicolo fossile tutto sommato agevole e scendiamo in una forra dove si trova l’arrivo d’acqua; in due ore o poco più siamo in zona di lavoro. Gianluca quando vede la risalita quasi non vuole più disostruire, anche Alessandro apprezza che per una volta non siamo immersi nel fango e che il tratto da gattonare sia stato molto breve».
La caduta e la frattura della gamba
Dopo alcune manovre e lavori all'interno della grotta, mentre due speleologi "addolciscono" un cunicolo, lei e un altro fanno per salire su una parete, per arrivare a una zona di livello superiore:
«arrivo in cima ma è solo un terrazzino, mancano ancora quattro-cinque metri per arrivare a quello che sembra un meandro non larghissimo ma transitabile. Nicola mi raggiunge e mi fa sicura sul terrazzino; nel frattempo ci raggiungono anche Alessandro e Gianluca. Pianto tre chiodi, salgo e mentre sto martellando la roccia su cui sono si stacca».
A questo punto, avviene l'infortunio alla gamba, che interrompe bruscamente la spedizione e costringe la squadra a chiamare, dopo aver tentato di uscire da soli, i soccorsi:
«N. quasi mi prende in braccio, ma tanto basta per battere la gamba sinistra contro la roccia e sentire un dolore che non avevo mai provato: credo di aver rotto qualcosa, ma se non urlo troppo magari non è vero – spiega -. N. fortunatamente non si è fatto nulla, è saldo e tranquillo, cerca di tranquillizzare anche me, ma io sento il dolore e so che non passerà alla svelta. Ci raggiungono subito G. e A., penso alla risalita, all’esplorazione: magari posso uscire con uno di loro e gli altri vanno avanti. No, mi fa troppo male se vogliamo avere mezza speranza di uscire dovranno aiutarmi tutti e tre; provo a muovermi, ma non riesco neppure a stare in piedi da sola. Ovviamente l’unica cosa da fare è cercare di uscire prima che il dolore aumenti: G. e A. mi aiutano a raggiungere il pozzo, mentre N. si porta sull’armo per mettermi a mo’ di sacca sotto di lui. Ogni passo, ogni movimento sento il dolore alla gamba. Arriviamo a terra e provo a fare qualche passo sorretta da A. e N., ma nulla da fare, il dolore è troppo per proseguire».
L'intervento dei soccorsi
Per questo motivo, in seguito decideranno di chiedere aiuto all'esterno, a quei soccorritori che nella sua lettera Ottavia ringrazia e definisce
«eccezionali, che hanno dato tutto quanto potessero fisicamente e umanamente per portarmi fuori; amici e sconosciuti che hanno messo da parte impegni personali e professionali per dare il loro contributo, che hanno sopportato il mio dolore e supportato il mio umore volubile in ogni modo a loro disponibile. Amici che pur non facendo parte della macchina del soccorso hanno fatto tutto quanto potevano per agevolarla. I miei compagni di uscita, che hanno predisposto l’attesa e i soccorsi nel miglior modo possibile. [...] Non ho parole per l’ammirazione che ho provato vedendo le loro manovre precise, facendo attraversare alla barella posti in cui passava a malapena. Soprattutto non so trasmettere quanta dolcezza, umanità e affetto hanno saputo trasmettermi loro con la loro presenza, con qualche battuta e con le molte premure. [...] Anche quando ero tra sconosciuti di cui non ricordavo i nomi, chiusa nella barella, con la claustrofobica visiera del casco abbassata, in ogni singolo istante, mi sono sentita a casa».