Un'oasi di pace

Perché dell'antico convento dei Celestini Borgo Santa Caterina non può fare a meno

Le suore sacramentine non riescono più a sostenere i costi del suo mantenimento. Si cerca una soluzione che rispetti le finalità del luogo

Perché dell'antico convento dei Celestini Borgo Santa Caterina non può fare a meno
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di Wainer Preda

Il grande portone in legno e ferro battuto scricchiola. Quando lo spiraglio si apre, un fascio di luce violetto illumina un Crocefisso alto un metro e mezzo. Poi tinge le colonne, facendo risaltare gli affreschi sulla volta. È uno spettacolo di mirabile armonia la chiesetta del monastero dei Celestini, a Borgo Santa Caterina. È dedicata a San Nicolò. Soli otto banchi. Intima. Avvolgente. Fuori dal tempo. Tanto che se la messa fosse celebrata in latino, faticheresti a dire in che secolo sei.

Il complesso monastico, che si trova nell’omonima via, è finito al centro delle cronache dopo un articolo di Bergamonews che ne ipotizzava la vendita, subito rintuzzato dai legali dell’Istituto Suore Sacramentine, proprietarie dell’immobile. Ma al di là delle questioni terrene, resta un cameo poco conosciuto, se non fosse per il tipico campanile tronco che campeggia, a sud dello stadio.

La chiesa e il monastero risalgono al 1300, quando il borgo si chiamava ancora Plorzano. Fu il cardinale bergamasco Guglielmo Longhi ad acquistare i terreni su cui poi venne edificato a partire dal 1309. Più volte devastato e saccheggiato durante gli scontri fra guelfi e ghibellini, nel 1358 divenne dimora di Alberico Da Rosciate che, oltre alla decorazione della chiesa, ancora visibile, volle realizzare il chiostro grande, completo di cappella per la sua sepoltura. Nel 1489 venne eretto il campanile tronco che caratterizza il complesso. La torre è in pietra da taglio, formata da conci orizzontali di piccole dimensioni. Al mattino risplendono al sole, donando una luce calda, quasi dorata, a tutto il complesso.

Per circa tre secoli, gli edifici hanno seguito i canoni dell’Ordine benedettino, ispirati alla semplicità, lontani dallo sfarzo e sobri nelle linee architettoniche. Solo nel 1600 la chiesa si è arricchita di affreschi di Simone Cesareo, stucchi, marmi intagli e sculture. Mentre nel 1704 si sono aggiunti i dipinti di Antonio Camuzio. Nel 1789 la congregazione dei celestini fu sciolta dalla Repubblica di Venezia. E dopo varie peripezie l’edificio, nel 1884, divenne di proprietà del Comune di Bergamo che lo destinò a ospedale fino alle costruzione di quello di Largo Barozzi, nel 1930. Sette anni dopo, nel 1937, il cavaliere del lavoro Lodovico Goisis, acquistò tutto il complesso e lo ristrutturò per farne un orfanotrofio femminile.

Due anni dopo la chiesa di San Nicolò, che era stata sconsacrata, venne restituita alla città come luogo di culto. Era e resta un capolavoro inestimabile. A pianta a croce greca. Con un’unica navata e tre campate. Con una volta a capriate che poggiano su archi. E il pavimento in lastre nere di ardesia. Sulla volta ci sono un grande affresco raffigurante l’Agnello e i simboli della Passione di Cristo. Mentre sulle pareti laterali sono stati rinvenuti, durante i restauri del 2010, perorati dall’allora parroco don Andrea Paiocchi, affreschi del Trecento. Si tratta di opere attribuite a Bertolo De Zorli, raffiguranti la Madonna con il Bambino e i Santi. Dipinti per i quali l’artista venne denominato Maestro di San Nicolò ai Celestini.

Insomma si tratta di un complesso ricchissimo di capolavori artistici e architettonici. Come il Chiostro medievale, a pianta quadrata, con sette arcate per ogni lato. Siepi basse a circondare il giardino e camminamenti in sassi bianchi. Mentre il Chiostro grande ha quattro pilastri angolari in pietra e capitelli trecenteschi. Gli edifici hanno finestre bordate di bianco e persiane di color verde acqua.

Per secoli l’ex monastero e la chiesa di San Nicolò sono stati luoghi importanti della storia religiosa bergamasca. E a mantenerne intatta la vocazione nel Dopoguerra è stata una clausola voluta dal Goisis stesso. Il magnate donò il convento alle Suore Sacramentine con un unico obbligo: che l’intero complesso mantenesse la sua funzione sociale. (...)

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