Risposta alla Moratti

«Sono le 17, ho chiuso l’ambulatorio, non ho mangiato e ho ancora 185 mail da leggere»

Un medico della città: «Una polemica già sentita: cosa dire? Un infermiere e un impiegato (part time) negli studi medici cambierebbero tutto»

«Sono le 17, ho chiuso l’ambulatorio, non ho mangiato e ho ancora 185 mail da leggere»
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di Angela Clerici

«Guardi, questa polemica non è nuova, che cosa posso dire? Inviterei volentieri la signora Moratti qui nel mio ambulatorio adesso che sono le due e che non ho ancora pranzato e nemmeno pranzerò. Mi piacerebbe che stesse qui a guardare il mio lettino per le visite, vede? È occupato dalle scartoffie che devo risolvere entro stasera, non da una persona da visitare». Il dottor Francesco Cappello si trova a Bergamo dal 2000, è medico di base, ha lo studio alla fine della via Broseta, verso Loreto.

Dottore, ma lei quante ore fa al giorno, di lavoro?

«Comincio le visite a domicilio la mattina dalle 8.30, poi ogni giorno faccio l’ambulatorio o la mattina o al pomeriggio. In teoria sarebbero cinque ore al giorno perché l’ambulatorio chiuderebbe alle 13.30, al mattino e alle 19.30 la sera. Ma le cose vanno in maniera diversa, oggi andrò a casa alle cinque o alle cinque e mezza perché è un giorno tranquillo, naturalmente senza pausa per il pranzo. Quindi farò otto ore e mezza o nove ore di lavoro. Quando l’ambulatorio è di pomeriggio allora vado a casa verso le dieci di sera».

Ma scusi, se l’ambulatorio chiude alle 13.30, perché va a casa alle cinque?

«Adesso sono le due, giusto? E vede che è arrivata un’altra persona che ha bisogno, dopo di lei. Che cosa debbo fare? La mando via? Certamente no. Penso che sia l’ultimo paziente, ma dopo di lui devo affrontare la parte terribile del mio lavoro, quello burocratico. Guardi, ho 185 mail ricevute oggi da guardare, 112 ricette da compilare per i pazienti. Ho altri quaranta messaggi in whatsapp e venti Sms. Più o meno a tutti devo rispondere, faccia lei il calcolo di quanto tempo mi serve. Ore e ore che vanno via in queste cose. Alle volte non riesco a dormire la notte perché ho l’ansia, non so se riuscirò a fare tutto, il giorno dopo».

Lei quanti pazienti assiste?

«Duemila, prima ne avevo mille e cinquecento, ma adesso con la storia che non ci sono i medici di base...».

Il carico della burocrazia è aumentato in questi anni?

«Io direi che dal 2000 a oggi sia triplicato, all’incirca. Ci si dimentica che dobbiamo affrontare tante incombenze del tipo domande di invalidità, esenzioni dal ticket, ausilii per i diabetici, per protesi, lettini, carrozzine e via dicendo. Per non parlare di quanto è successo con il Covid...».

Quanto tempo dedica a ogni paziente?

«Ecco, questo è il punto. I miei utenti sono soprattutto anziani, bisogna ascoltarli, spesso è la migliore medicina. Non puoi dedicargli cinque minuti, quando faccio le visite a domicilio devo considerare almeno mezz’ora, in ambulatorio un po’ meno, ma il lavoro del medico di base non è la catena di montaggio, bisogna ascoltare con attenzione per cercare di capire. E ripeto, spesso la parola e l’ascolto risultano la terapia più efficace, soprattutto con le persone anziane che spesso vivono sole».

I pazienti spesso si lamentano che le ricette per le visite specialistiche sono urgenti, ma che negli ospedali non possono venire soddisfatte.

«È così. Ultimamente ho dovuto rifare tre volte una ricetta, ma capita di frequente. Avevo messo un’urgenza a dieci giorni, ma il Cup ha rimandato indietro il paziente dicendo che non c’erano posti, allora ho fatto una ricetta nuova, a trenta giorni e anche lì non c’erano possibilità... Il fatto è che i Cup ti rimandano indietro il paziente anziché assegnargli la prima visita disponibile».

Che cosa dice delle Case di comunità?

«Prima di tutto direi Case della comunità, con il determinativo perché significa che è la casa di quella comunità specifica, di quel territorio e non sono case di comunità generiche. Comunque, ho l’impressione che abbiano cambiato il nome e che tutto sia ancora come prima».

Ci spieghi.

«Voglio dire che l’edificio è quello di prima, mi riferisco per esempio all’Ats di via Borgo Palazzo, il personale è ancora quello, i servizi idem...».

Lei che cosa propone?

«Io penso che la Regione dovrebbe dare a ogni studio medico un infermiere e un impiegato, anche part time, anche a scavalco con altri studi. Questo cambierebbe tutto, aumenterebbe di molto la possibilità di cura sul territorio da parte dei medici».

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