Un libro sugli eroi della clinica San Francesco per aiutare le suore nel mondo
Un'infermiera colpita dal virus e rimasta sessanta giorni in isolamento: «Avevo mal di testa insopportabili e non tolleravo la luce»
di Federico Rota
Le testimonianze e le immagini raccolte nel volume Abbiamo imparato a sorriderci con gli occhi documentano l’abnegazione di medici, operatori sanitari, volontari e di tutti coloro che, nonostante la scarsità di mezzi e protezioni, hanno contrastato la diffusione del Covid-19. Nei mesi più drammatici dell’emergenza, con senso di responsabilità, i professionisti impegnati in prima linea, andando ben oltre i loro compiti, si sono dedicati senza riserve alla cura dei malati e dei più fragili, in molti casi accompagnando i pazienti più gravi, sopraffatti dall’infezione, negli ultimi istanti vissuti lontano dagli affetti più cari, anche impartendo loro il sacramento dell’estrema unzione, su dispensa del vescovo.
Queste pagine, pubblicate dall’Istituto Suore Cappuccine di Madre Rubatto, raccontano di un male che ha tolto il respiro a migliaia di vittime, ma non è riuscito a soffocare la speranza e la forza d’animo di donne e uomini che, anche nelle ore più cupe, hanno reagito mettendo in campo competenze e capacità per garantire la migliore assistenza possibile. Il Covid ha colpito duramente tutte le popolazioni, ma sulle più fragili e indifese ha infierito; per questa ragione il ricavato dalla vendita della pubblicazione sarà interamente devoluto al sostegno delle opere e alla missione umanitaria delle suore Cappuccine di Madre Rubatto in Italia e nel mondo. Il libro, curato da Cristina Moro ed edito da Grafica & Arte, può essere acquistato in tutti i front office della Clinica San Francesco di Bergamo, nelle principali librerie della città e sulle piattaforme on line.
«Mio figlio mi corse incontro ma lo respinsi, per proteggerlo»
Testimonianza di Veronica Gabbiadini, infermiera
«Credo che noi mamme, in questo dramma collettivo, siamo diventate mamme due volte. A me è capitato: quando ho partorito mio figlio sei anni fa e quando ho potuto riabbracciarlo dopo 65 giorni di isolamento perché il Covid-19 ha colpito anche me.
Era il 5 di quel tragico marzo 2020 quando, rientrando a casa dopo aver eseguito un tampone di controllo, essendo entrata in contatto con parenti ammalati, ho improvvisamente avvertito i primi sintomi, fino ad allora mai provati prima, di questa malattia che dal non avere alcuna evidenza manifesta ti mette ko.
Dall’auto ho chiamato mio marito, che si trovava a casa con il bimbo, per chiedergli di mettere una valigia, con tutto il necessario fuori dalla porta, perché mi sono subito resa conto del fatto che avrei dovuto isolarmi dai miei cari, per curarmi ed evitare i rischi di contagio. Allora avevo stimato in una settimana la mia assenza forzata. Un’illusione svanita il giorno di Pasqua, quando, nell’abitazione che era stata dei miei nonni, lontana da tutti, ho capito che mi stavo aggravando: un dolore al centro del petto, che risaliva lungo la spalla e il collo, mi ha fatto temere un infarto e ho deciso di raggiungere il pronto soccorso dell’ospedale Papa Giovanni XXIII. Lì i medici diagnosticarono una pericardite, evidentemente da Covid, e capii che sarei stata lontana dai miei cari per un periodo più lungo, ma mai avrei immaginato di dover restare in isolamento per oltre due mesi ed essere controllata con nove tamponi perché non mi negativizzavo.
In quel tempo, ho vissuto emozioni molto forti, impossibili da rimuovere. L’angoscia ha segnato le notti senza fine, popolate solo dai fantasmi dei sintomi di una malattia sconosciuta; la tristezza profonda per la separazione forzata da tutto ciò che di più caro ho al mondo: mio figlio e i miei familiari; la preoccupazione di riuscire ad essere in grado di nascondere la mia sofferenza per non allarmare i miei cari; infine, la rabbia per non poter stare al fianco dei miei colleghi, che considero la mia famiglia, che non mi hanno mai lasciata sola. I colleghi che si sono presi cura di me, anche a distanza e che erano impegnati a lottare contro il virus anche per me; in particolare Anna che mi ha sempre sostenuta, donandomi ogni giorno la forza per affrontare l’ignoto che aveva minato la mia salute.
Ricordo giorni in cui ho patito cefalee che non mi hanno dato tregua per diverso tempo, dolorose a tal punto che riuscivo a sopportarle solo nella totale oscurità. In quel periodo, però, l’unica opportunità di vedere il mio bambino era attraverso il collegamento via Skype e non potevo certo mostrarmi in quelle condizioni. Così, ogni giorno, a fatica cercavo di farmi forza e rischiaravo un minimo la stanza: da allora, però, il mio piccolino ha paura del buio perché associa le tenebre alla malattia che mi ha separato da lui per troppo tempo. Ancora oggi mi commuovo ripensando al dolore nel doverlo respingere, per proteggerlo, quando, dopo molti giorni di lontananza, è sfuggito alla custodia del papà e mi è corso incontro per abbracciarmi.
Abbiamo vissuto esperienze che ci hanno cambiato. Abbiamo affrontato dolori, sofferenze e lutti, ma anche intrecciato una rete di solidarietà che sarà per sempre la nostra forza e la ricchezza più grande. Un patrimonio di umanità ed esperienze che oggi rappresenta il valore aggiunto alle nostre vite».