«L’arte oggi è un disastro»

Coter, il pittore bergamasco che ha dichiarato guerra all'umanità

Coter, il pittore bergamasco che ha dichiarato guerra all'umanità
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Foto ©Bergamopost/Mario Rota

 

 

Signor Francesco Coter, lei è un pittore molto conosciuto e apprezzato, ha avuto grande successo in passato, poi è come se fosse scomparso. A quando la prossima mostra?
«Non ne ho in programma».

Ma da tanti anni non fa una mostra.
«Non mi interessa».

A chi li vende i suoi quadri?
«Non li vendo».

Lei fece la sua prima esposizione nel 1957 con il papà Costante e il fratello Francesco, alla galleria La Torre, in città. La prima personale fu ancora alla Torre, nel 1961 e fu un successo speciale.
«Sì. La inaugurammo al sabato sera. Io la domenica andai all’Atalanta, quando tornai dallo stadio passai dalla galleria. I quadri erano già venduti tutti».

Incredibile.
«Erano tempi d’oro. Il primo dipinto di quella mostra, un mio autoritratto, lo vendetti sulla soglia della galleria, stavo entrando con il quadro sottobraccio, mi vide il signor Berner, il console svizzero, mi fermò, me lo comprò subito, prima di entrare».

 

 

Lei era un pittore figurativo.
«Sì, ogni giorno andavo in campagna o sulla riva di un fiume o in Città Alta e dipingevo. Tanti quadri li ho distrutti, magari dovevo tenerli».

E continua a dipingere.
«Sì, continuo. Credo di avere 285 quadri. Alcuni dipinti mi occupano per mesi, lavorando anche dieci ore al giorno».

Che cosa dipinge?
«Mi sono inventato un genere mio, particolare. Dipingo simboli. Sono simboli che traggo da alfabeti e tradizioni differenti, dal greco, all’indiano, all’ebraico, al cinese, al sanscrito... E li inserisco in una forma armonica, sempre diversa, colorata. È un lavoro certosino, che nessuno capirebbe».

Per questo non fa più mostre?
«Perché non mi interessa».

Ma dal 1961 a oggi sono passati cinquantasei anni.
«Ho lavorato tanto in Germania e in Olanda, con un certo apprezzamento. Die Welt mi fece una recensione molto lusinghiera. Qua da noi non mi trovavo bene. C’erano state le illusioni degli Anni Sessanta. Mi ricordo il famoso sciopero degli operai della Dalmine dopo i fatti di Reggio Emilia, io ero in piazza con loro, assaltammo il giornale dei padroni, Il Giornale di Bergamo neofascista. C’era tanta rabbia e tanta ingenuità».

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Lei fu un attivista del Sessantotto.
«No, nemmeno quello. Io sono di pensiero anarchico. Quando mi proposero di andare a occupare la Triennale di Milano risposi “Sì, io vengo a occupare i cessi”. No, non erano cose per me».

Però lei dichiarò guerra all’umanità.
«Sì, era il 1970. Io, mio fratello Ernesto e il poeta Gian Pietro Fazion. La premessa era semplice e l’avevamo scritta: “Constatato da lungo tempo il fallimento totale dell’esperienza umana, dalle ore zero del giorno 18 settembre 1970 ci consideriamo in guerra contro tutta l’umanità. La nostra guerra sarà condotta con la non azione».

Quella dichiarazione diventò un manifesto, un libro.
«Sì. Riportammo storie, citazioni, immagini. Per esempio scrivemmo di Anassagora che nella ricerca della verità si spinse fino ai confini del cielo. “Quando la verità lo invase, si smarrì nell’oscurità. Respinse quindi il sapere e si dedicò alla contemplazione della natura. A un amico che lo rimproverava di non occuparsi della patria rispose: “Taci! Molto m’importa della patria”, e indicò il cielo».

Consideravate la scienza come un errore.
«Sì. Di Guglielmo Marconi abbiamo scritto: “Inventò il telefono senza fili, la radio. Questa e altre invenzioni permisero a masse sempre più grandi di comunicare tra loro. Così gli uomini allargarono la possibilità di fraintendersi. È il padre dell'incomunicabilità».

Figuriamoci i telefoni cellulari.
«Io non ho un telefono cellulare. Nel nostro manifesto denunciavamo l’invadenza mortale dell’uomo, i danni ambientali, l’inquinamento, lo stravolgimento della natura. Di Hitler scrivemmo che “Volle realizzare in breve tempo ciò che gli uomini stanno facendo da sempre”».

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Dopo la Dichiarazione di guerra che cosa fece?
«Me ne andai sull’Himalaia, nel Tibet, in Nepal. Ci andai in autobus e in treno. Mi ricordo che ero ad Ankara, nell’ambasciata cinese a chiedere i permessi quando arrivarono tre o quattro afgani che mi offrirono un passaggio. Con me c’era un ragazzo italiano che voleva andare in Vietnam per combattere con i Vietcong contro gli americani invasori. Era una corriera scassata, piena zeppa, che non si fermava mai, era estate e faceva un gran caldo. Una sosta era prevista soltanto alle cinque per pregare. La corriera si ruppe fra Iran e Afghanistan. Continuammo a piedi, per ore. Poi passò un pulmino, tipo uno scuolabus, che andava a Herat, erano le tre di notte. Lo presi al volo».

E quindi?
«Il 15 agosto del 1971 ero sull’Everest da solo, senza ossigeno. Non avevo soldi, ma là la vita costava pochissimo. Comperai degli scarponi e dell’abbigliamento di seconda mano e salii. Arrivai a circa seimila e settecento metri di quota, mi sorprese il buio, rimasi lì per la notte, riuscii a sopravvivere e poi scesi. Mangiavo riso, patate lesse, un po’ di formaggio. A un certo punto andavo in giro con una gallina viva attaccata allo zaino perché nessuno la voleva uccidere, niente brodo di pollo. Là era così. C’erano villaggi dove le donne avevano cinque o sei mariti perché gli uomini erano tutti in giro a cercare di guadagnare qualcosa. Un altro mondo».

Lei in Tibet, suo fratello Francesco alle isola Samoa. Suo padre invece è sempre rimasto a Bergamo. È stato un grande scultore.
«Sì, mio padre era un artista molto bravo, molto apprezzato. Anche i fascisti lo lasciavano in pace, lo stimavano: era stato pilota di aviazione sia nella prima che nella seconda guerra mondiale, aveva conosciuto bene D’Annunzio ed era amicissimo di Antonio Locatelli. Gli fece due ritratti dal vivo, un busto che si trovava nell’ospedale di Groppino. Gli dispiacque molto quando per il monumento della fontana, sul viale Vittorio Emanuele, scelsero un altro scultore: mio padre aveva preparato per l’occasione un secondo busto, bellissimo, di Antonio Locatelli. Credo che lui sia stato l’ultimo bergamasco a vedere Locatelli vivo: lo accompagnò alla stazione a prendere il treno il giorno in cui partì per la guerra di Abissinia. Non tornò più».

Suo padre conobbe Manzù?
«Sì, lo conobbe che Manzù era bambino. Mio padre lavorava dai falegnami intagliatori Manzoni di via Ermete Novelli, era molto bravo. A un certo punto arrivò un ragazzino a fare il bocia, si chiamava Giacomo Manzoni. Era Manzù».

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A Semonte si voleva fare un museo della casa di suo padre.
«Era una mia idea. Invece il Comune di Vertova ha lasciato abbattere la casa. Era un’architettura del Quattrocento. Il mondo va così. Mi ricordo che quando ero bambino lì abitava un signore che viveva della pesca nel Serio, è cambiato tutto».

Lei ha imparato da suo padre?
«Dopo la prima media, visto che non avevo tanta voglia di studiare, mi mandò a Locarno, a bottega da uno scultore bravissimo, Remo Rossi. Era il 1948. Lui era amico di Hermann Hesse, io me lo ricordo, veniva a mangiare da lui. Rimasi là sei anni e imparai il mestiere, quando tornai andai nella bottega di mio padre. Lo aiutai a realizzare i pannelli a rilievo della caserma dei vigili del fuoco e della Borsa Merci, poi mi misi per la mia strada. Ho avuto come maestro per breve tempo Trento Longaretti, ma in Accademia rimasi per pochi mesi. Io ero un oppositore».

Altri maestri?
«Quarti Marchiò mi apprezzava molto. Anche Longaretti. Conservo la lettera che mi ha scritto pochi mesi prima di morire. Io ero molto diverso da lui, anche per carattere, ma l’ho sempre rispettato per la sua coerenza di uomo e di artista. Un altro uomo importante è stato il gallerista Lorenzelli. Ricordo che a Venezia, alla Biennale, tutti gli facevano l’inchino. Tra le sue fortune, ci fu il treno che i tedeschi avevano organizzato da Firenze con opere del Quattrocento da portare in Germania. Quel treno in Germania non ci arrivò mai».

Che cosa è l’arte oggi?
«Un disastro. C’è una signora seduta su una sedia in una galleria d’arte. E quella è l’opera. Pazzesco. La pittura è stata destituita del suo valore, svuotata. Non ci sono più vere correnti, tutto è a discrezione dei mercanti, delle invenzioni... Sembra che si debba solo stupire, sorprendere».

Come nel barocco. Fine dell’artista è la meraviglia.
«Dipende. Io comunque mi sono creato una mia nicchia, un mio mondo figurativo. Io sono un pittore, uno che si metteva sulle Mura a dipingere il paesaggio. Da tanti anni non facevo il figurativo, poi una sera, forse tre anni fa, torno a casa, io ho un piccolo appartamento nel palazzo Terzi, e trovo la piazzetta deserta, senza auto parcheggiate, senza cartelli stradali: era tornata indietro nel tempo. Era perché stavano girando un film. Mi colpì la bellezza della piazzetta e salii in casa e mi misi subito a dipingerla. Poi feci vedere il quadro al regista che conobbi, voleva comprarlo, ma io mi sono rifiutato. È ancora nel mio studio».

E adesso che cosa fa?
«La cultura artistica è andata lontano dalla pittura e anch’io mi sono allontanato, poi sono tornato, creando questo mondo di simboli, come fossero mandala. Devi guardare i quadri, capirli, meditarli».

 

 

E la bellezza?
«La bellezza non c’è più. Oggi l’arte la trovi nella coscienza dell’individuo, basta. Certo, l’artista deve avere una sua originalità, aprire porte nuove, prospettive. È inutile stare a rifare il Rinascimento o l’Impressionismo. Ma le basi servono. Invece oggi l’arte del disegno e della pittura si perdono. Oggi si fanno le installazioni. Sa come io interpreto questo termine? Così: “In-stalla-azioni”».

Dove andrà l’arte nel futuro?
«Non lo so, io mi sono ritirato nel mio studio».

In questa meravigliosa piazzetta.
«Sì. Quando la vidi nuda, senza auto, restai meravigliato, l’ho già detto. Mi colpì anche la statua, sul lato; Hesse la notò quando venne a Bergamo e pensò che fosse Cerere, invece è l’allegoria del classicismo che dà un calcio al barocco... Io che non facevo più il figurativo sono salito in casa e ho dipinto questa scena. Chi lo sa se il futuro è questo».

Allora farà una nuova mostra? Quasi sessant’anni dopo quella della Torre...
«Ma no, ma no, non tiriamo a mano assurdità».

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