Assieme ai rettori

Giuseppe Giovanelli, il direttore che ha fatto grande l'Unibg

Giuseppe Giovanelli, il direttore che ha fatto grande l'Unibg
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Giuseppe Giovanelli («con una n») è nato il 12 marzo 1959. Sposato, risiede a Pedrengo. Proveniente da una famiglia modesta, il padre faceva l'operaio. Si è laureato in Economia e Commercio da studente-lavoratore («a una certa età bisogna mantenersi negli studi») e ha svolto tutta la sua carriera nella pubblica amministrazione. Prima al Comune di Pedrengo, poi tre anni al Comune di Dalmine, sette anni in Provincia, dove ha fatto il dirigente del servizio finanziario e del personale con i presidenti Gaiti, Ceruti e Cappelluzzo. Per due anni ha diretto il servizio finanziario agli Ospedali Riuniti. Il 1 febbraio del 2000 è stato chiamato in Università. Era appena iniziato il mandato di Castoldi come rettore e andava in pensione il direttore amministrativo. In seguito Giovanelli è stato nominato direttore generale. Da giovane aveva passione per la politica, che poi non ha coltivato. Ha tuttavia fatto una breve esperienza nella Democrazia Cristiana. Dal primo marzo lascerà l’incarico in università per andare a dirigere la Fondazione Angelo Custode della diocesi di Bergamo, Fondazione che si occupa di assistere e curare anziani e persone disabili.

 

Dottor Giovanelli, che lavoro andrà a fare dal primo marzo?
«Il direttore generale della fondazione “Angelo Custode”, che comprende alcune strutture come l'istituto di Predore, un centro residenziale, un centro diurno per autistici, la casa don Bepo che si occupa di malati di Aids e i consultori familiari della diocesi».

La Curia le ha fatto un'offerta economica irrinunciabile?
«Non vado gratis, perché è un lavoro, ma non è quella la questione».

E qual è la questione?
«Che la proposta che mi hanno fatto è nelle mie corde. Ho sempre desiderato di poter lavorare per persone con disabilità e disagi, va incontro alla mia sensibilità. Uso un termine antico: vocazione».

Termine che vuol dire chiamata.
«I miei passaggi tra gli enti non sono mai stati né voluti né programmati: di fronte a una proposta tendo a dire di sì perché credo che le cose non capitino per caso. In questa scelta c'è ancora un po' di incoscienza, ma questo mi piace, perché magari potrò fare ancora qualcosa di utile».

Lei è direttore generale all'università, le mancano sei anni alla pensione, ammetterà che lasciare adesso è una cosa insolita. Ha litigato col rettore?
«No, no. Su questo vorrei essere chiaro. Già a settembre avevo avvertito il rettore che non avrei ritenuto scontato un rinnovo. Credo che lui avrebbe preferito che rimanessi, anche perché siamo amici. Ora sto facendo due mesi di proroga per facilitare il passaggio di consegne».

 

 

Quindi l’università non c’entra nella sua scelta.
«C’entra in un altro senso: sono 17 anni che lavoro qui e credo che nessuno possa resistere per tutte le stagioni. Io ho vissuto almeno due epoche importanti, ma ora si sta profilando un nuovo ciclo ed è giusto, dopo che sono cambiati tre rettori, che ci sia un cambio anche nella direzione. Sono necessarie idee nuove. Mi avrebbe terrorizzato l'idea di ritrovarmi a fare un conto del tipo: “Mi mancano due o tre anni, cerchiamo di tirare in là”. Uno sguardo nuovo, diverso, anche critico farà bene all’università».

E se non le fosse arrivata la chiamata?
«Avrei cercato comunque di mettermi in gioco, perché in università gli stimoli non mancano. Mi sarebbe piaciuto, ad esempio, portare a compimento il progetto della Montelungo. Se è possibile, è comunque bene che le persone facciano un passo indietro rispetto all'istituzione».

Ma non succede quasi mai.
«Non mi permetto di valutare gli altri».

Lei da giovane era appassionato di politica, poi però ha seguito un'altra strada. Le è rimasto un rimpianto?
«Il fatto di aver potuto lavorare nel pubblico me l'ha fatta vedere dal punto di vista che mi corrisponde di più, perché non credo di essere una persona capace di acquisire consenso. Mi manca un po' di faccia tosta».

E della pubblica amministrazione che idea si è fatto?
«Penso che tutte queste riforme non abbiano condotto a un miglioramento. La pubblica amministrazione spende troppo per mantenere se stessa e per sembrare trasparente all'esterno e non sembrare corrotta. Paradossalmente, venticinque anni fa si potevano fare più cose di quelle che si possono fare adesso, oggi è molto più ingessata di allora».

 

 

L'impressione è che ci si preoccupi più di pararsi il fondoschiena che di far marciare le cose.
«Le regole a volte diventano degli alibi e danno la possibilità di non assumersi delle responsabilità. Trent'anni fa c'era più libertà di azione e si guardava molto di più al fine, allo scopo. Oggi invece si guarda al processo, all'adempimento burocratico. Troppe norme imbrigliano e finiscono quasi sempre per penalizzare chi le regole le ha sempre rispettate. L'esempio dell'università di Bergamo è emblematico: siamo un ateneo cresciuto in una fase nella quale la spesa pubblica ha dovuto essere contenuta. Per questo sono state varate delle regole generali che hanno bloccato anche chi, come noi, avrebbe avuto delle possibilità di espansione».

Diciassette anni fa l'università di Bergamo era una piccola cosa, oggi è uno dei fiori all'occhiello della città. Non solo: è l'istituzione che ha investito maggiormente su Bergamo negli ultimi dieci anni, un motore di sviluppo non solo culturale, ma anche economico. Vuol dire che anche lei è stato bravo.
«Ho fatto quello che dovevo. Penso di aver lavorato con intensità e disponibilità. Ho sempre cercato di agire in squadra con i rettori e i pro rettori, dai quali, nel mio ruolo, sono sempre stato rispettato. È stato possibile fare tutto questo perché c'è stato un ambiente complessivo che lo ha permesso, una profonda intesa con i rettori».

Nove anni con Castoldi.
«Sono stati quelli della definizione di alcuni elementi fondamentali dell'università. Per quanto mi riguarda, soprattutto l'infrastruttura, perché nel 2000 avevamo solo le sedi di via Salvecchio e di piazza Rosate. La prima sede che abbiamo comprato è quella in via Dei Caniana, che è stata il volano che ha permesso tutto il resto. Il modello che abbiamo cercato di costruire è stato svilupparci man mano che si sviluppava l'attività, e questo ha creato la possibilità di autofinanziare il processo. Dal 2000 a oggi siamo intorno ai 120 milioni di euro di investimenti in infrastrutture. Per i prossimi tre o quattro anni si prevedono altri 30 milioni di investimenti, già quasi completamente coperti, senza indebitamento».

Qual è la sede di cui è più orgoglioso?
«Sant'Agostino è la più bella. Quella più faticosa è stata la sede di via Pignolo: dal mio punto di vista è stato un bell'intervento, si sono dovute superare tante difficoltà e ci sono stati incidenti di percorso, ma all'ex collegio Baroni sono particolarmente legato. Adesso la Provincia ci ha “regalato” il palazzo di via Calvi e stiamo definendo col Comune l'acquisizione in termini gratuiti della sede storica di via Salvecchio».

 

 

Quindi è anche colpa sua se l'università non è andata dove c'erano gli Ospedali Riuniti.
«Si, ma di questo sono convinto. La questione Riuniti appartiene a quelle teorie che sono belle quando uno le pensa, ma che non hanno la possibilità di tradursi in concreto. Il mio ragionamento è molto semplice: se l'ospedale ha lasciato quella sede a fine 2012 è evidente che l'università non avrebbe potuto andarci, perché aveva urgenza di spazi. Una cosa che va riconosciuta a Castoldi e all'università è di aver capito che o le cose si facevano con urgenza o si perdeva il treno definitivamente. Se allora non fossero state prese decisioni che hanno innestato questo processo di sviluppo, oggi verosimilmente l'università non ci sarebbe o sarebbe la sede staccata di qualche altro ateneo».

Allora erano iscritti circa settemila studenti.
«Quando sono arrivato il professor Castoldi mi ha detto: “Abbiamo attivato il corso di Scienze dell'Educazione, a novembre deve partire il secondo anno e non sappiamo dove metterlo”. L'urgenza era totale. Per anni si era discusso della Martinella, di Borgo Palazzo, dei Riuniti. Ma l'università non poteva attendere. Probabilmente sono state perse delle occasioni, ma molto prima degli Anni 2000. Dal mio punto di vista Città Alta poteva essere una città universitaria; ci sono dei contenitori ancora oggi inutilizzati e l'università avrebbe potuto investire li, però questo avrebbe richiesto una visione diversa già negli anni Ottanta».

Tutto sommato a Bergamo anche una presenza policentrica dell'università ha un senso.
«Non ho mai condiviso l'idea di campus universitario mutuata dal sistema americano: là è diverso il modo di vivere e anche il territorio. Io credo, per esempio, che sia un valore che ingegneria stia a Dalmine, una città industriale, e si innesti in quella tradizione. Credo che abbia un senso che l'area umanistica stia in Città Alta dentro un contesto che richiama la storia e la cultura. Tutto sommato, credo che abbia anche un senso che economia e giurisprudenza stiano nella Città Bassa, che è la città degli affari. Dopo una prima fase, anche l'università ha cercato comunque di concentrarsi sostanzialmente su tre poli».

 

 

Com'è stato lavorare con Castoldi?
«Certamente lui era un rettore vivace e con tante idee, ma ha sempre accettato poi di misurarsi con una competenza diversa dalla sua. È stata un'esperienza di dialogo e confronto rispettoso, anche quando ci sono stati dei momenti difficili, perché è una persona di forte carattere che amava condurre l'università. È stato un periodo interessante, con molti stimoli e con molte mediazioni tra di noi».

Paleari?
«Con Castoldi si sono creati i fondamentali, Paleari li ha sviluppati e ha lavorato molto di più sulla “mission” dell'università in senso stretto, cioè l'aspetto culturale, la ricerca, l'internazionalizzazione, che è stato secondo me il suo punto qualificante. Ha aperto, spalancato l'università, l'ha collegata al mondo tessendo relazioni con altri atenei internazionali. Anche con lui ho potuto lavorare davvero bene».

Con Morzenti Pellegrini siete amici da sempre.
«Anche lui ha una linea strategica che sta cercando di portare avanti, quella che chiamano terza missione, quindi il trasferimento tecnologico, la relazione col territorio. Sta anche costruendo una governance più giovane, un nuovo ciclo».

Immagini un ragazzo che l'anno prossimo entra in Università per la prima volta. Che cosa gli direbbe?
«Di fare quotidianamente quello che deve fare, con convinzione e senza lamentarsi troppo, perché oggi ci si lamenta troppo. Se uno non pretende di avere tutto pronto su un piatto, penso che ci siano tutti i presupposti per fare bene. Bisogna investire su se stessi tenendo conto che esistono gli altri ed esiste il contesto, che non sono soltanto elementi inibitori. E di tener conto che esiste anche una bella università che solo vent'anni fa era una piccola cosa. Oggi un ragazzo che si iscrive ha molti più strumenti e molte più opportunità di quelle che ha avuto la mia generazione».

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