«Non sono ammesse distrazioni»

Il grande salto di Luca con la bici Campione mondiale di biketrial

Il grande salto di Luca con la bici Campione mondiale di biketrial
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«Ho sempre avuto il pallino per la bicicletta, è sempre stata al mio fianco. I miei genitori mi hanno abituato alla bellezza della natura, a conviverci, e a scoprirla con la bici. Poi un giorno, nel 2010, io e papà andiamo all’Eicma, un’esposizione a Rho, con le bici e le moto dappertutto. Lì c’era Walter Belli, un rider, che si stava esibendo in uno show di bike trial». Vi roviniamo subito il finale: Luca Tombini, 22 anni, oggi è campione del mondo di biketrial. Perché le scintille si accendono quando meno te lo aspetti - un pomeriggio in giro con papà, per esempio -, il resto è solo destino. Finiti da un paio di settimane i mondiali di Spagna, Luca oggi si gode l’idea di essere il più forte biker del mondo. Badate bene: essere i numeri uno in qualcosa non è mai facile. Lui lo è in uno sport libero, creativo, avventuroso. Durissimo. Ci vogliono equilibrio, forza, tanta resistenza. Saltateli voi tutti quegli ostacoli in sella a una biciclettina (senza mai mettere i piedi a terra, eh).

Ma ricominciamo dall’inizio: «Torno a casa e comincio a cercare video su YouTube. Provo a imitare le mosse con una mountain bike, ma poco dopo papà mi compra la prima bike trial». Visto che vi abbiamo già rovinato il finale, vi sveliamo anche il resto: Luca era già stato terzo un anno fa ai mondiali in Repubblica Ceca, e il successo spagnolo è stato un po’ come ripagare gli sforzi, i sacrifici, l’idea che tutte quelle ore di allenamento erano servite a chiudere un cerchio. Ma c’è sempre una prima volta. Questa: «Dopo qualche mese di allenamento al "Capannone”, un vero capannone in Val Imagna, seguito dal non ancora campione del mondo Andrea Riva e dal pluricampione italiano Luca Berizzi, mi butto nella prima gara di campionato italiano a Legnano. Un percorso facile. Beh, vinco. Fu una vittoria inaspettata, non avrei mai pensato che dopo così pochi mesi di allenamento sarei riuscito a conquistare il gradino più alto del podio al mio esordio in questo nuovo sport. Ero molto felice e confuso, ma capii che quella poteva essere la mia strada. Poteva essere il mio sport».

 

 

Che sensazioni ti dà?
«Diverse. In allenamento prevale il bisogno di migliorare, di andare oltre le proprie capacità e di cercare di spingere la soglia del limite sempre un po' più in là. E poi c’è la gara, il tutto per tutto, durante la quale c'è ansia, tensione ma allo stesso tempo c'è voglia di fare bene».

Tutti quegli ostacoli, come si mantiene la concentrazione?
«Bisogna mantenere la calma, il sangue freddo e la mente concentrata sull’obiettivo. Bisogna pensare ad un passaggio alla volta e non a tutta la zona insieme».

E poi il verdetto...
«Indipendentemente dalla vittoria o meno, sei più o meno felice in base a come hai girato, se hai fatto una bella gara, dei bei passaggi. Oppure se hai girato male. Sono molti i sentimenti e le sensazioni, molte anche contrastanti. Soprattutto legati a periodi di stallo, in cui non sembra di migliorare ma di peggiorare»

E come si fa?
«Son i periodi più difficili. Ma, si sa, in cima alla salita c'è sempre un panorama prima della discesa».

Il tuo è uno sport pieno di adrenalina?
«Un mondiale ti fa guardare le zone con cattiveria, con voglia di assalirle come un predatore con la sua preda. L’adrenalina ti fa digrignare i denti l’attimo prima di un passaggio difficile. Questo ti permette di tenere alta la concentrazione, non ti fa sentire il dolore in caso di caduta. L’adrenalina è anche il sapere che ci si può far male».

 

 

Cioè?
«Nel nostro sport esiste una componente di rischio. Se sbagli un passaggio ti giochi anni di preparazione, cadi e magari cadi anche male e ti giochi anche l’anno successivo. Per me lo sport è adrenalina, è sapere che ci si può far male. Sta a te evitarlo».

E la paura?
«Non deve esistere in gara, è il primo degli errori e la prima causa di fallimenti. La paura ti fa stare sulla difensiva, non ti fa aggredire le zone. Ma c’è, è innegabile. Per un grande salto nel vuoto, per un passaggio pericoloso. Si impara a controllarla».

Cosa significa essere campione del mondo?
«È un traguardo e una partenza, è la fine di un’era e l’inizio di una nuova. È un traguardo spettacolare, il coronarsi di anni e anni di allenamenti, sacrifici e botte. Ma è anche una porta che conduce a nuove esperienze, verso il continuo miglioramento».

Cosa c’è dietro?
«Sacrificio. Il sacrificio di non permettersi giorni senza allenamenti, di rinunciare alle uscite con gli amici, il precludersi nuove esperienze. Il sacrificio è alla base del successo in ogni cosa, nello sport come nella vita. È sapere che tutti i tuoi amici sono in vacanza e tu sei ancora sulla bici, e lo fai due, tre ore al giorno, magari sotto il sole».

 

 

E il terzo in Repubblica Ceca?
«Dopo il risultato della prima gara pensavo sarebbe andata bene anche la seconda. Invece tanta sfortuna. Nessuna delusione, mi ha fatto crescere e capire che non sempre va tutto come ci si prospetta. È stato un punto di partenza».

Per il mondiale in Spagna come avete festeggiato?
«Aprendo uno spumante. La sera, con altri riders di tutto il mondo, tutti alla festa organizzata per la chiusura dell’evento. Gente, musica. Tutto bellissimo. A casa i miei genitori hanno organizzato una festa a sorpresa con un centinaio di persone».

Emozioni a non finire…
«È stata una giornata spettacolare, mi son sentito ripagato e riconosciuto per tutti gli sforzi fatti per arrivare. Spero di poter ripetere questa emozione».

I tuoi genitori che dicono di questo sport?
«Hanno sempre appoggiato la scelta. Ha principi sani, non c’è un ritorno economico, e quindi mantiene la bellezza e la purezza. Lo sport mi fa star bene, mi fa concentrare e trovare il motivo per impegnarmi ogni giorno in quello che faccio».

E Luca Berizzi, il tuo allenatore?
«Lo è da tre anni, mi conosce, c’è un ottimo feeling. Sa quello di cui ho bisogno, sa come tenermi calmo in gara. È pluricampione italiano della vecchia scuola del biketrial, ha un sacco di tecnica e un occhio clinico. Cerchiamo di unire le cose e creare un buon mix. Abbiamo creato una scuola di biketrial. Con noi c’è anche papà. In Valle Imagna, vogliamo trasmettere la passione per questo sport».

 

 

Quanto ti alleni?
«Cinque, sette allenamenti a settimana, tra le quindici ore settimanali e, d’inverno, in palestra dopo allenamento vado a fare arrampicata. Equilibrio sulla bici, la padronanza del mezzo in qualsiasi situazione e davanti a qualsiasi tipo di ostacolo. Così facendo si allena anche la mente a rimanere sempre concentrata e non distrarsi mai un secondo».

Come si fa?
«Rimanendo sempre su ostacoli stretti e precisi. In quel modo la testa è obbligata a elaborare molte più informazioni, pronta a correggere il tiro e la posizione. Ci si allena a stare sullo scomodo, con brutte partenze e brutti arrivi per i salti».

Oltre al bike trial che cosa fai?
«Arrampico da un paio d’anni in palestra a Ponte San Pietro e alla Casella di Treviolo. Suono la chitarra da autodidatta per cantare con amici, amo andare in moto, d’inverno scio e ho provato anche snowboard. Vado a camminare in montagna, me la cavicchio col wind surf, ogni tanto faccio giro in MTB d’estate, edito video da caricare sui social network, ho fatto palestra anni fa per sistemare un problema alla schiena, ho fatto una decina d’anni di nuoto e un paio di tennis quando ero più piccolo. Adoro andare in campeggio e la vita un po' spartana».

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