A Terno d'Isola Marwen aveva la compagna e le figlie, ma pochi lo conoscevano
di Wainer Preda
La casa arancione è tristemente vuota. Le serrande sono chiuse. Il giardinetto silenzioso. La scala in pietra e il terrazzino, insieme agli abiti su un appendino del retro, sono testimoni immobili, di una vita che albergava lì. In questa abitazione al 3 del condominio Girasole, fino a domenica ci viveva una famiglia. Poi all’improvviso è arrivata la morte. Ha preso la forma di un coltello nelle mani di un ragazzo italiano di 19 anni. E di un fendente sull’uomo di famiglia - Marwen Tayari, 34 anni - spirato in una pozza di sangue verso le 13.30 di una domenica d’agosto in via Novelli, zona stazione di Bergamo.
Terno d’Isola, una mattinata assolata di piena estate. Il sole picchia e fa venire voglia di mare. Come quello da cui veniva Marwen, originario di Ariana, in Tunisia. Spiagge infinite e acqua cristallina che aveva lasciato per raggiungere l’Italia su un barcone. E poi trasferirsi in quest’angolo rovente della Bergamasca, in via Boccaccio, strade deserte che guardano le montagne dalla Val San Martino. Un cinquantenne, in canottiera, taglia la siepe della sua bella villetta. Ce ne sono tante qui. Infilate accanto all’altra. Non è quello che di solito si definisce un quartiere popolare, questo, anzi. Tutte case basse, con giardino. Costruzioni nuove, al di là della provinciale, al confine col parco. Il classico posto un po’ fuori dal mondo. Una sorta di enclave della tranquillità.
Quando gli chiedo se conosce l’uomo ucciso a coltellate a Bergamo, mi guarda strano. «Quale uomo, quale omicidio?» risponde stupito. E la stessa risposta la danno due ragazzi sulla trentina dalle case vicine. E altri vicini ancora. Tanti «non lo conoscevo». Cadono tutti dalle nuvole e paiono sinceri, perché qui davvero è consuetudine farsi gli affari propri.
Vicini di casa ma lontani anni luce. Eppure Marwen Tayari frequentava una delle villette che sta poco più in là, a dir tanto trenta metri. Quella in cui vive Eleonora Turco, la sua compagna, con le bambine, l’ultima di pochi anni. Si sono trasferite qui nel 2019, risulta al Comune, dopo aver passato alcuni anni a Ponte San Pietro. Il nome sul citofono è solo il suo. Perché Marwen non risiedeva qui. Le veniva a trovare. Come tutti i padri, alle pargole teneva. La signora dirimpetto ricorda quell'uomo che vestiva all'occidentale, giacca, jeans stracciati, e soprattutto quella donna con le bambine, quando passavano davanti a casa sua. Sembravano una famiglia normale. Gente tranquilla. Mai nessun problema con gli altri. «Ma domenica sera - racconta - quando ho visto la macchina dei carabinieri ferma qui fuori, ho capito che era successo qualcosa».
Era successo che quel 34enne tunisino dal sorriso aperto, aveva perso la vita in una vicenda a dir poco dissennata. Cinque vite rovinate, in pochi secondi. Quella di Marwen. Quella della famiglia che stava cercando di costruire. Quella del giovane omicida che ora rischia parecchi anni di galera.
In paese non si parla d’altro. Ma di Marwen ci sono poche notizie. Lo conoscevano in pochi. Perché nel centro di Terno d’Isola, una sorta di grande piazza che sembra un’arena, affacciata sulla chiesa e circondata da bar e attività commerciali, le etnie sono molto ben distinte e tendono a scansarsi l’un l’altra. Vivono vite parallele, ma quando si toccano sono scintille. «Noi siano egiziani - tiene a sottolineare un uomo robusto con accanto un ragazzino ben vestito -. Noi lavoriamo. I tunisini invece spacciano». Hulipo è cinese e il titolare di un bar. «Guardati intorno, mi dice. Vedi dei tunisini?». La sua clientela è pressoché italiana, gli altri poco desiderati. Poi mi indica un ragazzo sui trent’anni: «Chiedi a lui che cosa gli hanno fatto quelli». Il giovane ha una ferita profonda sul volto, appena ricucita. Mi racconta che qualche sera fa un nordafricano ubriaco gli ha tirato in faccia una pietra tagliente delle dimensioni di una scatola di scarpe. «A Terno è un macello, come a Zingonia», dice.
Chiediamo lumi al comandante della polizia locale. «Ci sono un paio di elementi tosti - spiega Cesare Pagani - non si tratta solo di marocchini, ma anche di italiani. Stiamo monitorando la situazione, in coordinamento con i carabinieri e la polizia. Il problema principale è la presenza di clandestini». Sulla piazza, intanto, un gruppo di signore sulla settantina se la racconta ai tavoli di una pasticceria, fra brioche e cappuccini. Guardano la foto dell’ammazzato sul giornale. «Poveretto, ci spiace. Anche per la famiglia e le bambine. Ma sinceramente non l’abbiamo mai visto qui intorno. Magari veniva la sera, chissà».
Eppure è certo che qualche volta Marwen sia passato di qui, dalla piazza. Se lo ricorda bene l’avventore di un bar. «Sì, l’ho visto un paio di volte il mese scorso. Una volta anche con la famiglia. Brave persone. Tranquille». Nella zona ci sono due macellerie islamiche e Marwen era musulmano e credente. Ieri avevano le serrande abbassate. «Era un brav’uomo, non meritava una fine del genere» dice un suo giovanissimo connazionale. Altro non aggiunge. Mi volta le spalle e se ne va.
L’integrazione in un luogo straniero, d’altronde, è una cosa difficile. Lo sanno bene i settantenni, quelli che un tempo probabilmente erano la compagnia principe del paese. Li trovi riuniti sul muretto, vicino alla chiesa, all’ombra delle piante. Nel tempo hanno visto arrivare persone dal sud, poi gli albanesi, i rumeni, i marocchini e i tunisini. «Certo è complicato - dicono - ma serve pazienza e rispetto delle regole. La violenza non va mai bene». Lo ha detto anche il parroco don Angelo Giudici. Dal pulpito. «La violenza è come la notte, arriva piano piano e non te ne accorgi nemmeno, ma quando ti guardi intorno ormai è già buio».
Lo stesso buio che all’improvviso è calato sulla mente di un ragazzo, una famiglia e un uomo che cercava un futuro migliore.