Le torture e le condanne

Ancora racconti di terrore Isis Le voci dei sopravvissuti di Hawija

Ancora racconti di terrore Isis Le voci dei sopravvissuti di Hawija
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Con il passare del tempo, emergono approfondimenti e rivelazioni - sempre piuttosto inquietanti – relative alla struttura e alla vita dello Stato islamico. L’ultimo in ordine cronologico arriva dalle pagine del New York Times, dove sono stati intervistati alcuni dei prigionieri dell’Isis liberati dal raid curdo-americano presso la città di Hawija, Nord-Est dell’Iraq, di una settimana fa. Hanno raccontato cosa significhi venir incarcerati dall’Isis, di come basti un nulla, e molto spesso con molta pretestuosità, per far scattare l’arresto, e quale trattamento le milizie del Califfato riservino poi ai prigionieri.

La galera (e la morte) per ogni inezia. Il primo racconto arriva da Muhammad Abd Ahmed, 35enne musulmano sunnita, quindi formalmente vicino all’ala religiosa a cui si rifà l’Isis, che descrive come, una volta conquistata Hawija, i soldati dello Stato islamico abbiano offerto agli abitanti 50 dollari in cambio della sottomissione al Califfato. Non che accettare avrebbe portato un qualche beneficio: le regole imposte dall’Isis sarebbero state rigidissime comunque e per tutti. La milizia ha sequestrato armi e denaro, perquisendo tutte le case; i pantaloni dovevano rigorosamente essere portati in un determinato modo, bisognava tenere, durante le preghiere, mani e dita in una certa posizione. E il tutto per evitare di incorrere in sospetti e pestaggi.

 

[Immagini del blitz dentro la prigione di Hawija]
Mideast Iraq Raid Video
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Il blitz di liberazione della prigione di Huwija, 22 ottobre 2015. Immagini registrate dalla telecamera collocata sull'elmetto di un soldato. (Kurdistan Regional Security Council via AP)

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Il blitz di liberazione della prigione di Huwija, 22 ottobre 2015. Immagini registrate dalla telecamera collocata sull'elmetto di un soldato. (Kurdistan Regional Security Council via AP)

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Il blitz di liberazione della prigione di Huwija, 22 ottobre 2015. Immagini registrate dalla telecamera collocata sull'elmetto di un soldato. (Kurdistan Regional Security Council via AP)

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Il blitz di liberazione della prigione di Huwija, 22 ottobre 2015. Immagini registrate dalla telecamera collocata sull'elmetto di un soldato. (Kurdistan Regional Security Council via AP)

Per non parlare di chi ha tentato la fuga dalla città. Jibouri racconta di essere stato imprigionato, insieme a diversi parenti, soltanto perché in precedenza un suo fratello aveva cercato di evadere da un carcere dello Stato islamico (era stato arrestato per il solo motivo di essere un insegnante di inglese, la lingua dell’Occidente). Ahmed è stato invece incarcerato poiché, in seguito ad una lite con un altro abitante di Hawija, quest’ultimo l’ha denunciato a un cugino facente parte delle milizie. Faraj invece è stato arrestato poiché aveva una moglie curda, e uno dei suoi fratelli è stato decapitato per il solo motivo di essere considerato una persona sospetta.

La vita all’interno della prigione. Come si può intuire, se già è tanto dura la vita da uomini “liberi”, quella da detenuti dell’Isis è un vero e proprio inferno. Nella sola Hawija esisteva un’articolatissima rete di celle, stracolma di prigionieri. Non era permesso uscire dal proprio loculo, le torture erano all’ordine del giorno, fatte di pestaggi, elettroshock e soffocamenti tramite sacchetti di plastica. Si mangiava esclusivamente pane, e ciclicamente tutti i detenuti venivano ammassati in una stanza e costretti a guardare i video delle esecuzioni degli altri prigionieri.

 

[Il raid americano contro la prigione di Huwija, per liberare tutti gli ostaggi]

https://youtu.be/_8XWoG8fHp4

 

Dopo la cattura, inoltre, ad ogni prigioniero veniva intimato di compiere una sorta di confessione, dichiarando pubblicamente il proprio operato contro l’ascesa dello Stato islamico. Jibouri racconta di essersi rifiutato di farlo, ottenendo di tutta risposta ulteriori dosi di torture. Il suo ragionamento, testuale, era: «Se confesso, mi ammazzeranno; se continuo a negare, mi picchieranno finché non otterranno una confessione, per poi ammazzarmi». Ahmed è stato torturato e picchiato talmente a lungo che aveva infine deciso di confessare, pur con la consapevolezza che questo avrebbe significato la sua morte.

Drammatico e al tempo stesso toccante è stato l’epilogo della prigionia di Faraj: stava attendendo, entro poche ore, l’esecuzione della sua condanna a morte; ma, mentre scriveva un’ultima lettera la nipote, intimandogli di non venire a cercarlo per non correre rischi, sono arrivati i curdi e gli americani a liberare Hawija, ed è stato salvato.

Il sollievo per la fine di questa disumana prigionia è grande, ovviamente, anche se non sufficiente per alleviare le preoccupazioni: molti degli ex prigionieri intervistati dal New York Times, infatti, raccontano di come vivano tuttora una profonda angoscia per i parenti che sanno essere stati arrestati dallo Stato islamico. E, conoscendo bene cosa questo comporti e significhi, nemmeno ora che sono finalmente liberi possono sentirsi sereni.

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