Dov’è andata a finire la giustizia? Sotto la burocrazia dei tribunali

Sono cresciuta per anni con la convinzione che sarei diventata avvocato, per questo sin dalle scuole superiori mi sono affacciata al mondo del Tribunale. Per la precisione, il Tribunale di Bergamo. Dapprima come stagista, poi come operatore giudiziario e infine come praticante avvocato. Ricordo ancora la prima volta in cui sono entrata in Tribunale. In punta di piedi, con una sorta di timore reverenziale, convinta che quello fosse un luogo mitologico, dove governasse davvero la dea Iustitia. Avevo studiato per anni, con passione e dedizione, quindi per me il mondo giuridico era un universo meraviglioso da esplorare.
Un tempio di scartoffie. Da lì a breve, però, la meraviglia e lo stupore sarebbero andati affievolendosi. Mi sono resa conto, con il tempo, che l’unica cosa che governa davvero in Tribunale è la burocrazia. Togliamoci dalla testa le scene da film tanto appassionanti: quella perfezione non esiste. Un tempio di scartoffie, atti, bolli, fascicoli impilati in ogni dove, gestito da piccole api laboriose che mandano avanti questo enorme circo dove si possono incontrare i più svariati figuranti: impiegate degli studi legali (quasi sempre a testa bassa e perennemente in coda davanti agli uffici), avvocati di grido, avvocati invisibili ma che svolgono con passione la propria professione, avvocati che non sanno pressoché nulla ma che miracolosamente esercitano, praticanti spinti dalla voglia di successo e (alcuni) dalla passione, cancellieri nervosi per la mole di lavoro, cancellieri che ti strappano un sorriso, assistenti che paiono scribani, giudici e magistrati che soccombono dinanzi alle pratiche, dipendenti fannulloni e girovaghi (purtroppo esistono), gente curiosa che assiste ai processi, giornalisti in attesa della notizia del giorno. Ecco, questo è lo scenario che mi è passato per anni davanti agli occhi. Pura e semplice burocrazia, quasi come in qualsiasi altro ufficio pubblico. Ore in coda, arriva il tuo turno, timbro, firma dell’op eratore e tutti a casa. O in ufficio. A preparare atti in miliardi di copie che l’indomani dovranno ancora essere timbrati e firmati. Tutto qui. Una piccola fabbrica di sentenze, atti giudiziari e decreti che cerca di funzionare ma che, sostanzialmente, arranca in attesa che arrivino i soccorsi a risollevarne le sorti.
Quelli che se ne approfittano. Un piccolo mondo a sé stante, tante persone che raccontano, con i loro volti stanchi, a volte delusi, la propria storia, la propria vita. Ma anche gente che cerca il proprio baricentro, con grinta e tenacia, in un luogo che, per antonomasia, dovrebbe raffigurare la bilancia, l’equilibrio. Ho imparato molto dal Tribunale, ho lavorato con quelle persone, e mi hanno insegnato che quel luogo funziona (o cerca di funzionare) solo grazie a chi ci lavora e all’immensità di soggetti che gli orbitano attorno. Sappiamo benissimo che sono molte le cose che non vanno, molte le cose da sistemare, esattamente come accade in una azienda. Ma spesso e volentieri, purtroppo, le cose non funzionano per colpa delle persone inefficienti e incompetenti che cercano di metterci mano. Dentro il Tribunale di Bergamo c’è una frenesia e una operatività che non si può immaginare, alimentata da avvocati che intentano cause a volte inutili, contenziosi che possono essere risolti in altri modi, a volte semplicemente mediando tra le parti, altre volte semplicemente usando il buonsenso e non l’avidità.
Non è un talk show. Ecco, forse è proprio il caro vecchio buonsenso la chiave del tutto. Da parte nostra di semplici cittadini, da parte degli avvocati e, infine, da parte del Tribunale stesso. E questo buonsenso sfocia anche nella non spettacolarizzazione della giustizia. Parlo dei processi mediatici che, sì, possono aizzare e animare l’opinione pubblica ma, dall’altro lato, bloccano per giorni l’intero Tribunale: pratiche ferme, impossibilità ad accedere agli uffici, un’intera struttura pubblica completamente bloccata. E non solo per colpa dei curiosi, ma anche per giudici che lo permettono e avvocati che si fanno pubblicità davanti alle telecamere. Questa non è giustizia, il Tribunale non è un talk show. Portiamo rispetto al Tribunale e lui porterà rispetto a noi.
Gli svogliati. Sia ben chiaro, anche lui ha le sue falle e sono davvero difficili da tappare. Difficoltà oggettive, probabilmente di gestione, che non si risolveranno facilmente. A partire da uffici che lavorano male, dipendenti lassisti, regole incomprensibili o assurde anche solo per avere della semplici copie degli atti. Se, dunque, aggiungiamo questo alle difficoltà di cui sopra, capiamo come il malfunzionamento del Tribunale sia il risultato di una concausa di circostanze e persone che rende la vita di chi lo frequenta quotidianamente quasi impossibile. Ecco perché ho lasciato quel mondo. Tutta la passione, la volontà, la tenacia non possono nulla davanti alla burocrazia. Almeno per me.
Una speranza. Ancora adesso, nonostante spesso mi venga in mente Dante quando all’ingresso dell’Inferno disse: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate», quando mi capita di tornarci e dopo aver oltrepassato i controlli di sicurezza, entro lì in punta di piedi, in sordina, con lo stesso timore reverenziale che aveva la ragazza alle prime armi, immaginandomi la dea Iustitia finalmente vittoriosa con la sua splendida bilancia perfettamente equilibrata e la spada come monito, per tutti noi, della sua potenza. Ma è una sensazione che, ahimè, dura ben poco.