Andrea e Giorgia, fidanzati e soccorritori. «13 ore senza tregua in ambulanza. Cose mai viste»
L’ex assessore Curto e la sua fidanzata sono volontari della Croce Azzurra di Trezzo. Lui entra nelle case dei malati Covid: «Coperto da capo a piedi, i familiari ti guardano spaventatissimi». «Alle 4 del mattino fino a 15 ambulanze in coda al pronto soccorso»
di Monica Sorti
In queste giornate drammatiche ci sono tante persone che, sul fronte Coronavirus, stanno in prima linea. È la grande famiglia dei volontari in ambulanza. Soccorritori e soccorritrici che si trovano nella vera trincea. Sono momenti molto difficili anche per loro, per il carico fisico ed emotivo che si trovano a dover fronteggiare. Abituati a gestire le emergenze, ma impreparati come tutti a una pandemia di questa portata. Andrea Curto, caposquadra nella Croce Azzurra di Trezzo sull'Adda, insieme alla compagna di squadra e di vita Giorgia Muraro, ci racconta come è cambiato il loro modo di operare.
L’area geografica di competenza nella quale operano è quella metropolitana intorno a Milano. «Le chiamate arrivano da Vimercate, Melzo, Monza, ma a volte anche da Bergamo». Zone di periferia della grande metropoli, capita di confrontarsi con situazioni di povertà e di violenza. «Facciamo sempre le 13 ore di turno filato, ma adesso la situazione è molto cambiata, io non l’ho mai vissuta così».
Andrea cita il turno dello scorso venerdì (20 marzo). Una situazione paradossale, mai vissuta prima in cinque anni. Con le ambulanze costantemente attive, le chiamate che si susseguivano, neppure il tempo di finire un servizio e di sanificare il mezzo che ci si rendeva disponibili per un’altra chiamata. «Su tredici ore di turno saremo stati fermi mezz'ora, facendo la somma dei pochi minuti alla volta in cui siamo riusciti a staccare. Un attimo di respiro tra una chiamata e l’altra. Prima uscivamo in quattro in squadra, mentre ora abbiamo ridotto a tre, e anche questo incide sullo svolgimento del servizio».
Durante il viaggio Andrea è coperto dalla testa ai piedi con il “Kit infettivi”, che consiste in una tuta protettiva, occhiali, mascherina e doppio paio di guanti infilati come da protocollo. «La situazione è surreale. La prima volta che mi sono trovato a entrare così in casa di un paziente sono passato da una vetrata, mi sono guardato e ho fatto fatica a riconoscermi. E a non spaventarmi. Ho immaginato cosa può provare una persona quando mi vede arrivare. C’è un signore un po’ anziano che mi è rimasto particolarmente impresso. Sono entrato e la moglie e il figlio mi hanno guardato spaventatissimi. Ho fatto quello che dovevo fare, gli ho messo la mascherina. Lui è stato molto collaborativo, prendeva l’ossigeno già autonomamente, avevano comprato una bombola perché già da un po’ di giorni aveva difficoltà respiratorie».
E poi arriva la parte più dolorosa, quella del distacco che diventa strappo, senza la possibilità di un bacio, di un abbraccio, di una carezza. «Ho dovuto accompagnare all'ambulanza questa persona facendo stare a distanza tutti i parenti e, al momento di partire, si vedeva lo sguardo della moglie e del figlio che dovevano stare lontani mentre lui se ne andava. Sapendo benissimo che, da lì in avanti, non lo avrebbero più potuto neppure riabbracciare. Questa cosa è molto toccante e fare la parte di quello che tiene le distanze è molto difficile. Normalmente i famigliari seguono l’ambulanza, arrivano in ospedale con noi e la speranza per il paziente è quella di stare meglio. Mentre così si va incontro al buio».