Le tappe per la nuova elezione

Un arrivederci a Giorgio Napolitano

Un arrivederci a Giorgio Napolitano
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Erano mesi che lo aveva preannunciato e il 14 gennaio, dopo quasi nove anni di mandato, il Presidente Giorgio Napolitano ha firmato la lettera di dimissioni da capo dello Stato.  Il Presidente si è detto «contento di tornare a casa». Il suo è stato un mandato lungo e molto inteso, come tutta la sua vita politica.

Le dimissioni. Alle ore 10.35 di stamane, Giorgio Napolitano ha firmato la lettera “d’addio” con la quale ha ufficializzato le dimissioni annunciate da tempo. Si tratta di un atto personale del Presidente, che non ha bisogno di essere controfirmato e che è stato trasmesso dal segretario generale del Quirinale Donato Marra ai presidenti di Camera e Senato. Le dimissioni sono state lette in Aula, alla Camera, dalla Presidente Laura Boldrini e sono state seguite da un lungo applauso. Le guardie d’onore schierate al Colle hanno reso il saluto di commiato al Capo di Stato e il vessillo presidenziale è stato ammainato: sono terminati così i quasi nove anni di mandato di Giorgio Napolitano nel ruolo di Presidente della Repubblica.

 

 

Una vita politica intensa fatta di «personali, profonde, dichiarate revisioni». Nato a Napoli nel 1925 da una famiglia della buona borghesia, Giorgio Napolitano cresce in un ambiente intellettuale composto da giornalisti, registi e drammaturghi. La sua vita politica ha avuto inizio con l’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli, dove si è laureato con una tesi dal titolo “Il mancato sviluppo del mezzogiorno dopo l’Unità e la legge speciale per Napoli del 1904”.

Durante gli anni di studio si iscrive al Gruppo Universitario Fascista (GUF) che, come ammetterà più tardi, «era un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e, fino ad un certo punto, tollerato». Nel frattempo, il giovane Napolitano si occupa anche di critica teatrale per la rivista fascista IX maggio, debutta come attore e scrive sonetti in dialetto napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli.

 

Napolitano_Berlinguer

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1945, subito dopo la fine della guerra, Giorgio Napolitano si iscrive al Partito Comunista Italiano (Pci). La sua storia all’intero del partito è passata, come lui stesso ha dichiarato, «attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni». Per diventare comunista, infatti, rompe col padre, grande avvocato liberale e, anche all’interno dello stesso partito, si schiera con la “minoranza”, decidendo di aderire alla corrente della cosiddetta "destra comunista”, ovvero quella più riformista.

Il 1956 segna, forse, uno degli anni più difficili dell’adesione di Napolitano al Pci. Si tratta, infatti, dell’anno della terribile repressione della rivolta ungherese, per mano di Mosca, finalizzata ad uscire dalla “tutela” sovietica. L’intervento delle truppe sovietiche impedì la rivolta e causò oltre duemila morti. Il Pci, ancora molto legato al Cremlino, fu solidale con la repressione, ma ruppe con molti intellettuali e dirigenti di spicco, che uscirono dal partito. Napolitano decise, invece, di restare fedele alla linea del Pci dichiarando che l’intervento sovietico «aveva contribuito non solo ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo» (frase rinfacciatagli dalla destra al momento dell’elezione a Capo di Stato e più volte durante il suo mandato).

Da quell’avvenimento, tuttavia, qualcosa cambiò. Napolitano fondò la corrente “migliorista” del Pci, la cui idea di fondo era che fosse possibile migliorare gradualmente il capitalismo attraverso una serie di riforme da portare avanti con una partecipazione attiva al governo, piuttosto che tramite uno scontro aperto con le forze capitalistiche.

 

 

Tante soddisfazioni fino alla Presidenza della Repubblica. Nel Pci, si diceva, Napolitano era stato sempre in minoranza, al punto da sfiorare anche la rottura con Berlinguer quando, nel 1981, con una celebre lettera pubblicata su L’Unità, criticò la guida del leader, accusandolo di «settorialismo» e di «elitismo». Una diversità, quella del Presidente della Repubblica dimissionario, a cui, però, sono stati riconosciuti anche tanti meriti. È il 1953 quando Napolitano venne eletto, per la prima volta, al Parlamento. Da allora è stato sempre rieletto fino alla XII legislatura, ovvero fino al 1966, con l’unica eccezione della IV legislatura. Nel 1978 Napolitano è il primo dirigente di un partito comunista a visitare gli Stati Uniti. L’accesso ai comunisti, infatti, era vietato da molti anni in seguito ad un’interpretazione restrittiva di una legge del 1940, lo Smith Act. Nel 1992 fu eletto Presidente della Camera dei Deputati. Sono gli anni di Tangentopoli e Napolitano prende posizioni forti contro l’immunità parlamentare; nel 1996, sotto il governo di Romano Prodi, è il primo ex comunista ad essere nominato ministro dell’Interno. Nel 2005 è stato nominato senatore a vita dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi. L’anno seguente è Napolitano stesso a salire al Quirinale: il primo ex comunista al Quirinale e il primo, nella storia della Repubblica italiana, ad essere eletto per due volte nel ruolo di Presidente della Repubblica.

 

 

Siamo arrivati così ad oggi, 14 gennaio 2015, il giorno delle sue dimissioni in cui, un po’ commosso, ha dichiarato: «Qui si sta bene, è tutto molto bello ma è un po’ come una prigione». Sono stati, infatti, (quasi) nove anni molto intensi quelli vissuti nel ruolo di Capo di Stato, anni in cui ha cercato, con grande pazienza e determinazione, di “rammendare” la tela delle istituzioni politiche italiane, facendosi spesso supplente dei partiti dimostratisi inconcludenti.

Che cosa succederà adesso al Quirinale? Dalle 12 del 14 gennaio, come previsto dall’articolo 86 della Costituzione, il Presidente del Senato Pietro Grasso è diventato il “presidente supplente” ed ha assunto tutte le funzioni del capo di Stato fino alle elezioni del prossimo Presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano, dal canto suo, tornerà a fare il senatore a vita. Nel frattempo il Presidente Boldrini dovrà convocare le Camere in seduta comune a Montecitorio per eleggere il nuovo capo di Stato entro 15 giorni dalle dimissioni. Il termine per convocarle è, dunque, il 29 gennaio. L’obiettivo del premier Renzi è di arrivare alle votazioni dopo l'approvazione della riforma della legge elettorale, che diventerebbe così un test per verificare la compattezza del Pd.

Per quanto riguarda il “toto-candidati”, resta sempre caldo il nome di Romano Prodi, fatto recentemente anche da Pierluigi Bersani. C’è poi Sergio Mattarella, oggi giudice costituzionale e ministro della Difesa sotto D’Alema e Amato, che, però, non sembra molto gradito ai berlusconiani. Si parla, inoltre, anche della candidatura di Pier Carlo Padoan (attuale ministro dell’Economia), di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, e di Dario Franceschini e Pier Ferdinando Casini. Soltanto nei prossimi giorni, però, si delineeranno con maggior chiarezza le reali possibili candidature per il Colle.

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