Quattro opere di Chagall e Ben Shahn

Auschwitz, qualcuno aveva pensato di poter essere (e rimanere) puro

Auschwitz, qualcuno aveva pensato di poter essere (e rimanere) puro
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Quando l’Armata Rossa, il 27 gennaio di tanti anni fa, penetrò in quelle baracche che di lontano sembravano alloggiamenti del nemico, ciò che vide non assomigliava a niente che fosse mai stato visto prima.

Non lo diciamo, cosa videro i Russi, perché ormai quelle immagini sono entrate nella memoria del mondo. Si sono radicate come un incubo sordo nei sogni dei sopravvissuti, stampate come un fotogramma abbacinato negli occhi degli amici e dei parenti delle vittime, insediate come un disturbo da shock post traumatico nella quotidianità di coloro che - pur non avendo alcuna diretta responsabilità di quanto successo, né sofferto alcuna perdita personale - non riescono tuttavia a sopportare l’idea che uomini come noi siano stati capaci di tanto o abbiano dovuto sopportare umiliazioni come quelle che ci sono state mostrate, raccontate, cantate, esposte negli anni.

Ci piacerebbe che la scrittura offrisse la possibilità che l’architettura ha offerto a Daniel Libeskind che a Ground Zero, per ricordare la tragedia delle Torri Gemelle, ha realizzato due vasche nere nelle quali l’acqua sembra precipitare in quel pozzo senza fondo che è il cuore di un uomo ferito, oltraggiato nella propria umanità.

E ci piacerebbe che questa scrittura senza fondo fosse nello stesse tempo nera come l’abisso del male e assolata come un mezzogiorno d’agosto a illuminare controluce tutte le altre Auschwitz che, nonostante - o forse addirittura in continuità con - quel giorno si sono susseguite negli anni che ci raggiungono e continuano mentre noi siamo vivi: le montagne di croci nei lager sovietici, le stragi di mussulmani in Serbia, la Cambogia di Pol Pot, Utu e Tutsi, i massacri in Algeria e, oggi, in quelli che furono un tempo la Siria e l’Iraq. E le altre, in Messico, a Gaza...

Si è detto tante volte Mai più la guerra, Mai più genocidi, Mai più un orrore e un dolore così.

È giusto dirlo in maniera composta, è necessario urlarlo in modo scomposto, ripeterlo in ogni occasione, perché la memoria oscura non renda ingenua la speranza, le visioni di morte rendano lancinante il desiderio di pace.

Ma dobbiamo anche sapere che il giorno della pace senza più stragi non ci sarà mai, che il Terzo - e definitivo, e luminoso - Regno dello spirito umano trionfante sulle tenebre non ci sarà mai, e che anzi, è proprio nella volontà di realizzarlo che si annida il germe della purezza e dello sterminio che ha prodotto ciò di cui oggi stiamo facendo memoria.

Mentre ricordiamo le vittime, dobbiamo anche tener bene presente che Auschwitz è stato possibile perché qualcuno ha pensato di poter essere puro. Perché ha sognato di poter pulire il mondo rimanendo innocente. Perché si è pensato un chirurgo sano capace di risolvere ogni malattia altrui. Ripensando quel giorno non ci facciamo abbattere dall’orrore. Pensiamo piuttosto che è nell’uomo - in ogni uomo, anche in noi - la possibilità di generarne uno simile. Facciamo attenzione a noi stessi.

Le immagini che seguono, di artisti appartenenti al popolo di Israele - Marc Chagall e Ben Shahn -  vogliono essere insieme il ricordo del dolore e della sofferenza innocente e la testimonianza della gioia quieta che si realizza ogni volta che gli uomini si riconoscano tra loro fratelli, senza tuttavia dimenticare di essere necessariamente puri e impuri, luminosi e tetri, ciascuno nel proprio cuore e l’uno per l’altro.

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L'ebreo americano Ben Shahn, che ha molto insistito sul salmo 133: «Com’è dolce che i fratelli vivano insieme».

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L'ebreo americano Ben Shahn, che ha molto insistito sul salmo 133: «Com’è dolce che i fratelli vivano insieme».

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Chagall, 1938: «Devo dipingere la terra, il cielo, ciò che porto nel cuore, la città in fiamme, la gente in fuga, i miei occhi pieni di lacrime».

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Foto 4 di 4

Chagall, dedicata alla shoah

 

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