Io, bergamasco a New York nella notte in cui ha vinto Trump
Domenica 13 novembre, il neoeletto presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump ha rilasciato la sua prima intervista in questo nuovo ruolo. A 60 Minutes, sulla CBS, ha ribadito le modifiche alla riforma sanitaria di Obama e la costruzione del muro anti-clandestini al confine con il Messico. Ecco allora il racconto di un giovane bergamasco, nella notte in cui è cambiato tutto.

«Molti hanno riso di me nel corso degli anni. Ora non ridono più»
Donald Trump
C’è un silenzio surreale a Times Square. Non c’è mai silenzio a Times Square. Sono le 2.20 del mattino qui in America e sugli schermi ad alta definizione sopra il palazzo del Nasdaq è da diverse ore che una mappa dettagliata degli Stati Uniti si aggiorna in base ai risultati elettorali in entrata. C’è un’invasione di rosso. I giornalisti del network americano ABC seguono lo spoglio in diretta dalla piazza (ci pensano i loro tecnici ad aggiornare la mappa), e intorno una folla di persone di ogni età ed etnia osserva incredula l’evolversi della situazione. Il conteggio dei delegati dice 245 per Trump e 218 per Clinton. Si vince a 270. Mancano i risultati di alcuni stati chiave. Tra di loro c’è la Pennsylvania, dove Trump è in vantaggio di qualche migliaio di voti. La Pennsylvania vale 20 delegati. Trump è in vantaggio anche in Wisconsin, dove nessun sondaggio pre-elettorale l’aveva mai dato in vantaggio. Verso le 2.30, il New York Times dà ufficialmente la Pennsylvania a Trump. Manca solo l’annuncio.
Sullo schermo gigante compare John Podesta, capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, in diretta dallo Javits Center di Manhattan. Lo Javits Center (un meraviglioso centro congressi) è dove Hillary Clinton dovrebbe festeggiare la vittoria, ed è dove migliaia di supporters democratici la stanno aspettando. Podesta dice che Hillary non parlerà stanotte. Dice a tutti di andare a casa. Nel frattempo, a pochi isolati di distanza, i supporters più fedeli di Trump sono radunati in una sala congressi dell’Hilton di Midtown. Sembrano molto gasati, e sembrano aspettare solo che il loro Donald faccia la sua comparsa sul palco. In tantissimi hanno il cappellino rosso con la scritta “Make America Great Again”, l’ormai celebre slogan che Trump ha riciclato da Regan per farne il mantra della sua campagna elettorale. L’annuncio della vittoria, alla fine, arriva.




Pochi esultano moderatamente; i più continuano a rimanere in silenzio. Trump appare sullo schermo gigante tra il commosso e lo scioccato. Non c’è l’audio a Times Square, e le uniche parole che si leggono dal labiale sono “thank ” e “you”. Un ragazzo nero che guida un camion della spazzatura si ferma in mezzo alla piazza e chiede dal finestrino chi ha vinto. Appena gli rispondono se ne va in silenzio, con un’espressione a metà tra disgusto e paura. Una giornalista di ABC ha le mani nei capelli, è seduta ad un tavolo e non parla, non guarda nessuno negli occhi. Anche i giornalisti in televisione sono stravolti. Prima di arrivare a Times Square, quando l’outcome era già abbastanza chiaro, ho visto una ragazza di colore scoppiare in un pianto vero e drammatico in metropolitana. Altri avevano la faccia di quelli che hanno appena visto le porte del treno chiudersi davanti agli occhi, e loro sono rimasti sul binario con la bocca mezza aperta e un’espressione rassegnata.
Nell’aria c’è esattamente quella sensazione di vivere un momento che segnerà la storia contemporanea, a Times Square come fuori dagli studi di Fox News sulla Sesta Avenue, dove un gruppo più cospiscuo di supporters di Trump (Fox News è un’emittente repubblicana) sta esultando al grido: «U-S-A! U-S-A!». Fuori dall’Hil - ton, dove si trova Trump, c’è un oceano di giornalisti, camioncini con l’antenna bianca e persone con il cappellino rosso. Se ne stanno andando anche loro e hanno un bel sorriso stampato in faccia. Un ragazzo nero vende cappellini e spillette con la faccia di Trump e il sigillo presidenziale. I giornalisti intervistano i passanti; un gruppo di ragazzi è preoccupato fino alle lacrime per i diritti delle persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), altri sono in fibrillazione, ma negli occhi non hanno l’entusiasmo che avevano prima della vittoria. Lo diceva Oscar Wilde: c’è soltanto una cosa peggiore del non ottenere qualcosa che si desidera, e quella cosa è ottenerla.
La Trump Tower sulla Quinta Avenue svetta imponente ed è nera, quasi la si confonde con il cielo. C’è un fan di Trump con una maschera di Trump, e ancora un fiume di giornalisti e cameraman. Forse il neoeletto presidente tornerà qui a dormire stanotte, forse no. Un po’ di riposo se lo è probabilmente meritato dopo questa incredibile campagna elettorale: ultimamente era arrivato a fare anche otto comizi elettorali al giorno nei luoghi più disparati degli Stati Uniti. Trump ha vinto anche perché durante i suoi pittoreschi comizi ha parlato allo stomaco del Paese, mentre la Clinton, con fare pragmaticamente accademico, parlava perlopiù al cervello. Trump ha ripetuto più o meno velatamente che l’America contemporanea è un’aristocrazia e che lui lotterà con l’establishment per ridare una voce al popolo. È un progetto ambizioso ma bello. La speranza collettiva è che Trump non abbia utilizzato il messaggio solo ed esclusivamente per la sua risonanza persuasiva. Questo ce lo può dire solo il tempo.
La sensazione dominante, però, non è la speranza. È qualcosa di più oscuro. È come se, ad un certo punto, fosse calata un’ombra, e il cielo azzurro intenso si fosse trasformato in una notte fredda di metà novembre. È difficile da spiegare, ma è così. Alle 4 di mattina New York è popolata dei volti del mondo. Ci sono tassisti neri e tassisti asiatici che vanno su e giù per le Avenue, e persone dai tratti mediorientali che preparano dello street food per giornalisti affamati. E poi ragazze davvero splendide in eleganti cappotti invernali che fumano una sigaretta mentre parlano con un supporter portoricano di Trump, che non si capisce se è ubriaco di gioia o ubriaco e basta. D’improvviso ti ricordi del pazzesco esperimento che è New York, e che più in generale sono gli Stati Uniti d’America, e dei motivi che rendono questo Paese, per molti aspetti, il faro del mondo. Dicono che con Trump abbia vinto l’America della supremazia maschile di pelle bianca. Sarebbe davvero un grande peccato.