I cattolici cinesi son più degli italiani E il Papa farà un passo storico
Per capire l’importanza della partita basta fare un paragone: ogni domenica ci sono più fedeli cinesi che vanno a messa di quanti non siano gli italiani frequentanti. Chiaramente i cinesi sono una piccolissima minoranza rispetto ad una popolazione di 1,4 miliardi di persone, mentre gli italiani sono una grossa minoranza su 60 milioni di persone. Ma questo numero dà comunque idea dell’importanza che il rapporto con il grande Paese asiatico ha per la Chiesa cattolica e per il suo futuro. Papa Francesco, con il pragmatismo che lo contraddistingue, ha affrontato di petto la questione, a livello concreto e anche a livello di scelte simboliche.
A livello pratico, la notizia più importante riguarda il nodo spinoso della nomina dei vescovi. Com’è noto, tra Pechino e Vaticano questa è stata la vera materia del contendere. Pechino infatti ha sempre pensato che la nomina dei vescovi da parte di uno Stato straniero come il Vaticano fosse di fatto un’interferenza occidentale e quindi nei decenni passati aveva lasciato via libera ad una “chiesa patriottica”, le cui gerarchie erano nominate tutte all’interno, con il consenso del regime, e senza interpellare il Vaticano. Contro questa prassi papa Wojtyla aveva avuto un atteggiamento durissimo, considerando automaticamente scomunicati tutti quei vescovi che sottostavano a questa imposizione. Era stato Benedetto XVI a riaprire un dialogo con la Cina, rivolgendo nel 2006 una lettera a «tutta la Chiesa che è in Cina» e dichiarando che la «quasi totalità dei vescovi nominati in Cina è ormai in comunione piena con la Santa Sede».
Ora papa Bergoglio ha fatto un passo ulteriore e ha fissato una prassi condivisa per la nomina dei futuri vescovi: Pechino sottopone al Vaticano una lista di nomi graditi e poi tocca a Roma fare la scelta finale. Le prime tre nomine storiche sarebbero già sul tavolo di Francesco in attesa della firma: il pragmatismo gesuita e quello cinese evidentemente hanno portato a risultati in tempi veloci. Ora restano altri passi, come quello della diplomazia, che comporta per il Vaticano il ritiro del riconoscimento a Taiwan, l’isola che si è sottratta alla sovranità della madrepatria cinese e che è sempre stata vista come avamposto occidentale. Il Vaticano, in virtù di quei numeri di cui si diceva, difficilmente rinuncerà ad avere relazioni con la Cina per salvaguardare quelle più che altro simboliche con Taiwan (dove i cattolici sono 500mila, cioè venti volte meno che in Cina). L’altro passo che può seguire il riconoscimento è il viaggio del papa a Pechino: un viaggio che sarebbe epocale e per il quale si è ventilata anche una data: 2017.
Ma in questi giorni c’è un altro fatto simbolico importante da annotare: sull’ultimo numero della Civiltà Cattolica (la rivista dei gesuiti) è stato pubblicato un articolo di Aloysius Jim Luxian, rettore del seminario di Shanghai, morto nel 2013, figura simbolo della chiesa patriottica cinese, consacrato vescovo senza il mandato papale nel 1985 (ma poi rientrato in comunione con Roma con Benedetto XVI). Ora la pubblicazione di un suo intervento su una rivista che con il papa gesuita ha assunto ancora più peso politico è un altro importantissimo segnale della distensione in corso.