Intorno a un articolo di Alberto Melloni

La Cina ha nostalgia di Venezia

La Cina ha nostalgia di Venezia
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Domenica 23 novembre un articolo di Alberto Melloni sul Corriere offriva interessanti punti di riferimento per chi volesse osservare in modo serio e senza tentare pericolose invasioni di campo l’attuale stato dei rapporti fra Chiesa e Cina. Il titolo richiamava la questione delle nomine dei vescovi: l’articolo si estendeva ben al di là di essa, fino a ipotizzare che Francesco - lotta per le investiture a parte - «possa fare il "grande balzo" e andare a dire la comunione di tutta la chiesa dove essa arrivò con i missionari persiani, con la Bibbia di Marco Polo, con l’amicizia di Matteo Ricci e Xu Guanqi».

Attenti come sempre a non disturbare il manovratore, pensiamo che anche l’Italia avrebbe tutto da guadagnare dall’avverarsi di una prospettiva del genere. Scriveva nell’agosto scorso la rivista di geopolitica Limes in merito alla "via del risorgimento" intrapresa dalla Cina del presidente Xi Jinping:

Sul fronte eurasiatico, «via del risorgimento» è sinonimo di «nuove vie della seta». Xi intende riconnettere la Cina all’Europa e al Mediterraneo attraverso due reti di infrastrutture integrate (ferrovie, strade, aeroporti e interporti, condotte energetiche eccetera). La prima si snoda via terra da Xi’an a Venezia e di qui all’Europa centro-occidentale, a evocare gli antichi percorsi che connettevano l’impero Han allo spazio di Roma. La seconda converge anch’essa su Venezia, ma via Oceano Indiano-Suez-Mediterraneo. Così marcando la peculiare attrazione dei leader cinesi per l’Italia, regolarmente snobbata dai nostri governanti. Il tutto a formare la «cintura economica della via della seta», dai confini ancora vaghi ma certamente tricontinentali.

L’ipotesi era stata presentata dallo stesso XI nel settembre del 2013 in un intervento all’Università Nazarbayev di Astana (Kazakistan). Qui l’illustrazione delle infrastrutture energetiche, ferroviarie e stradali delle moderne vie della seta.

La Cina ha nostalgia di Venezia. Ha nostalgia di Marco Polo e di Matteo Ricci (marchigiano, quest’ultimo. In ogni modo “adriatico”), il primo non cinese, quattro secoli fa, ad ottenere “forse, il più alto riconoscimento, cioè il privilegio imperiale di un terreno di sepoltura nella capitale in quella che oggi è la School of Beijing Municipal Committee. Tale onore, impensabile per gli stranieri che non potevano essere inumati a Pechino, viene concesso dall'Imperatore su richiesta dei compagni di Padre Matteo Ricci in virtù del suo amore e della sua profonda stima per il popolo e la cultura cinese”. (per altre informazioni vedi qui).

Il 27 ottobre 2010, quarto centenario della morte del grande gesuita, il presidente Napolitano, in visita in Cina, volle onorarne la tomba prima di recarsi a Macao per la mostra “Matteo Ricci. Incontro di civiltà nella Cina dei Ming”. Due anni prima, nel giugno del 2008, il sinologo Riccardo Scartezzini, Direttore del Centro studi Martino Martini di Trento, volle offrire al “pubblico cinese un'opportunità straordinaria: riscoprire l'immagine della Cina nella cartografia occidentale, un'immagine che dal Seicento in poi contribuì anche alla conoscenza che i cinesi hanno del proprio Paese”. Le preziose carte sarebbero state al centro di una mostra intitolata “Visioni del Celeste Impero”. Matteo Ricci fu il primo che disegnò non solo una carta della Cina, ma anche una carta del mondo per i cinesi.

Ebbene, l’esposizione rischiò di non avere mai luogo perché del materiale facevano parte alcune tavole che dimostravano in modo inconfutabile che il Tibet e altre regioni della Repubblica popolare come il Xinjiang islamico erano state a lungo indipendenti. «Nel clima teso dopo la rivolta del Tibet e le contestazioni alla fiaccola olimpica», raccontò Scartezzini, «abbiamo avuto la richiesta di non esporre alcune tavole». La richiesta fu opportunamente accettata. Scrisse a quel tempo Repubblica.

Anche dopo questo sacrificio di alcuni pezzi, “Visioni del Celeste Impero” rimane un' esposizione di straordinario valore. Per l'affascinante bellezza delle carte antiche, e per la storia che c'è dietro. É il ricordo di un'epoca felice - e troppo breve - in cui il confronto tra «noi» e «loro» avvenne in un clima di straordinaria apertura e tolleranza: una parentesi di contaminazione reciproca, quando l'Europa si liberò dai suoi pregiudizi, e la Cina dal suo orgoglioso senso di superiorità. Questi reperti rivelano l'eccezionale ruolo che svolsero i gesuiti - prima di essere a loro volta censurati dalla Chiesa romana - come mediatori culturali fra l' Occidente e la Terra di Mezzo.

Adesso che il rischio che la Chiesa romana censuri i gesuiti è fortemente diminuito, la felice contaminazione potrebbe riprendere utilmente il suo corso. Anche perché - e qui la Chiesa in senso stretto sembra entrarci meno - la Cina non ha dimostrato il proprio interesse alla nostra penisola solo in occasione di mostre e di omaggi alle tombe.

C’è una vicenda tristemente sottaciuta, in questi anni, che potrebbe rientrare in quella che Limes ha chiamato la seconda via moderna della seta, che pure converge su Venezia «ma via Oceano Indiano-Suez-Mediterraneo». Questa seconda via avrebbe un punto di snodo essenziale nel porto di Taranto, corteggiatissimo dai cinesi.

Scriveva da Pechino Francesco Sisci il 29 maggio 2012 sul Sole24Ore:

Dopo essere rimasto incagliato per anni il porto di Taranto, possibile asse in un futuro prossimo dei commerci tra Europa e Asia, sta per ripartire. Il Governo ha […] risolto i problemi burocratici che impedivano di andare avanti sui lavori infrastrutturali. Le annose questioni con Hutchison Whampoa, il gigante dei trasporti di Hong Kong, sono state appianate e Taranto potrebbe diventare nell'arco di qualche anno nell'Europa del Sud quello che Rotterdam è nell'Europa del Nord: il grande snodo dei commerci europei. [..] Entro 24 mesi, […] dovrebbero essere completati lavori come il dragaggio dei fondali e […] potrebbero finire i lavori per costruire una nuova banchina attraverso cui Taranto sarebbe in grado di ricevere e movimentare anche oltre quattro milioni di container all'anno. […]

Su questo punto di leva si può iniziare a risollevare l'economia dell'Italia, dando anche un enorme contributo alla soluzione della questione meridionale, e cambiando la scena dell'Europa, perché il fulcro degli scambi con la dinamicissima Asia può ritornare, come fu per secoli, la Penisola. La Hutchison, oggi proprietaria della metà della concessione del porto di Taranto, mentre l'altra metà è di Evergreen, una consorella di Taiwan, è infatti il maggiore trasportatore di container del mondo, e il progetto potrebbe trasformare Taranto nel punto di riferimento commerciale dell'Asia nel Mediterraneo. (Taranto hub cinese in Europa)

Non se ne fece nulla. Il primo ottobre scorso Fabio Savelli poteva scrivere sul Corriere della Sera:

La grande fuga dal porto di Taranto

«Anni per completare i lavori»
I taiwanesi di Evergreen, primi azionisti del terminal container: «Nessuna nostra linea oceanica farà più scalo nel porto». I ritardi delle opere di adeguamento dei fondali.

Si sa cosa accadde del porto di Genova  - e dell’Italia tutta - quando i traffici marittimi si spostarono verso quelli del Nord. La fuga dei cinesi da Taranto è stata una catastrofe per la nostra economia tutta impegnata nel dibattito Ilva sì - Ilva no. Ma non è ancora detta l’ultima parola: i cinesi - almeno loro - sono pazienti e fortunatamente esistono forze più potenti della sommatoria delle incapacità dei nostri governanti. E queste ragioni sono di natura culturale e, insieme, geopolitica. L’Europa avrebbe tutto da guadagnare dalla riscoperta di quelli che Melloni chiama «tesori della rivelazione che per esprimersi hanno bisogno di culture diverse da quella greco-latina che ha disegnato l’attuale forma della vita cristiana» e il mondo non potrebbe che giovarsi di questa scoperta.

Già anni fa - nel 1984 - usciva in Italia un libro del giornalista e scrittore Robi Ronza (La nuova via della seta. Verso l’assetto mondiale degli anni ’90) che, come molti altri dello stesso autore, aveva un solo (ma gigantesco) difetto: quello di essere uscito troppo presto. Dando come certa la fine dell’URSS che si sarebbe verificata cinque anni dopo, Ronza tracciava uno schema assai preciso dei possibili vantaggi che l’Europa avrebbe potuto - e potrebbe ancora - ricevere dal fatto di instaurare con Pechino stabili e rispettosi rapporti. Non ultimo, quello di non vedersi ridotta a giocare un ruolo marginale in un mondo dominato dallo strapotere e dall’arroganza americana. Ricordato il magistrale (confermiamo) libro di René Grousset “Bilancio della storia”, il libro si avvia al termine osservando che:

“una riattivazione degli itinerari terrestri intercontinentali non può che avere il proprio punto di origine e di forza nell’Eurasia; resterebbe tuttavia incompleta, e quindi del tutto inefficace, se non si estendesse anche all’Africa e alle Americhe.”

Dopo di che passa ad elencare le vie di traffico (gli itinerari terresti) che nel frattempo - a causa delle prospettive miopi di chi ha voluto governare il mondo - sono state occupate dalle milizie diverse che si chiamano Isis a levante e Boko Haram a ponente.

Sarebbe da ingenui non vedere che una prospettiva come quella indicata dal libro dipende da situazioni che potrebbero anche non aver luogo - e che in effetti, salvo alcune fondamentali, non hanno ancora avuto luogo - e tuttavia, conclude Ronza:

È certo però che un mondo del genere avrebbe il vantaggio, rispetto a quello di oggi, di basarsi su una struttura complessiva di interscambio più equilibrata, e soprattutto tendente non più alla rivalità ma all’intesa, non più allo scontro ma alla cooperazione, non più alla guerra ma alla pace.

Se Papa Francesco per un verso e il governo di Pechino dall’altra fossero davvero interessati a un progetto del genere - e non c’è da dubitare che lo siano - allora la necessità di risolvere una disputa sulle nomine vescovili potrebbe davvero aprire scenari scenari nuovi e molto interessanti.

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