Forse un intervento in Iraq

La Cina si unisce alla lotta all'Isis? La ragione è tutta nel petrolio

La Cina si unisce alla lotta all'Isis? La ragione è tutta nel petrolio
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Gli Stati Uniti, e in generale tutta la coalizione militare internazionale impegnata in Medio Oriente, pare che avranno al proprio fianco un’inaspettata alleata: la Cina. Il Governo di Pechino, infatti, si sarebbe reso disponibile a partecipare alla guerra all’Isis, pur mantenendo una marcata autonomia nelle decisioni e nell’azione militare vera e propria, come impongono i principi di politica estera del Paese.

L’intervento cinese consisterebbe fondamentalmente in supporti aerei, i quali per altro rappresentano, per il momento, la modalità maggiormente utilizzata dagli eserciti occidentali per tentare di colpire lo Stato islamico. La Cina starebbe quindi provando a cambiare la sua politica ufficiale di non intervento negli affari interni degli altri Paesi, e sarebbe disposta a entrare attivamente nel conflitto iracheno a fianco del governo di Baghdad. Al momento Pechino si rifiuta di commentare la notizia, anche se Hong Lei, portavoce del Ministero degli Esteri, ha ammesso che la Cina ha intenzione di contribuire negli sforzi dell’Iraq di combattere il terrorismo islamico.

Le ragioni (economiche) dell’intervento. Il proposito di Pechino è stato, naturalmente, favorevolmente accolto da Stati Uniti e Nato, pur nella consapevolezza che la decisione non è stata presa per senso di solidarietà nei confronti delle popolazioni mediorientali: la Cina infatti intende operare nella zona irachena, allo scopo di proteggere i forti interessi petroliferi che da anni coltiva da quelle parti. La Cina è infatti il più grande investitore, per quanto riguarda il greggio, in Iraq, dove gestisce circa un quinto dell’intera produzione petrolifera della zona, con più di 10 mila cinesi impegnati in questo grande ramo commerciale. Una scelta, quindi, che fa il paio con quella, presa in settembre, di intervenire con 700 soldati di fanteria per collaborare con la missione Onu in Sud Sudan; anche in questo caso, più che per affezione ai destini delle popolazioni del Darfur, il motivo è stato dettato da quel 5 percento dell’intero mercato petrolifero cinese avente le basi proprio in Sud Sudan.

Oltretutto, circa 300 militari cinesi, appartenenti al gruppo Etim (un movimento islamico locale), avrebbero già abbandonato le fila di Pechino per unirsi alla causa del Califfato, intendendo, neanche fra troppo tempo, creare una regione legata allo Stato islamico nello Xinjiang, Cina sud-occidentale. Una prospettiva che, seppur tutta da verificare, preoccupa non poco, e richiede un intervento il più in fretta possibile.

Il più grande esercito al mondo. Quello della Cina è senza dubbio l’esercito più numeroso al mondo, con ben 2 milioni e 250 mila militari impegnati; Pechino dispone inoltre di 760 navi e 2.400 aerei in progressiva e costante modernizzazione, 15 mila carri armati, 4 mila mezzi per la fanteria e 25 mila artiglierie. Negli ultimi 15 anni, le spese belliche sono drasticamente aumentate: nel 1999, la spesa era di circa 24 miliardi di euro, cifra che era già più che raddoppiata nel 2001 (62 miliardi, il 2,8 percento del Pil), per poi toccare l’incredibile soglia di 115 miliardi di euro nel 2013; solo gli Stati Uniti dedicano più risorse alle spese militari, circa 530 miliardi di euro, più del 4 percento del Pil. L’Italia, per fare un paragone, impegna l’1,3 percento (44 miliardi di euro) del Pil in questo genere di costi. Un esercito, quello cinese, dal sempre più elevato tasso tecnologico: droni, cyber spionaggio, missili radiocomandati, e velivoli sempre più moderni rappresentato un’eccellenza (se così si può definire) mondiale.

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