Battuta a Milano per 167euro al chilo

Com'è andata l'asta del Bitto E perché una forma costa così tanto

Com'è andata l'asta del Bitto E perché una forma costa così tanto
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La famiglia del casaro valtellinese Carlo Duca ogni estate, da tutta una vita, sale all’alpe Arcogno Soliva a Mezzoldo con i suoi animali. Chissà se quell’estate del 2000 immaginava che il frutto della sua fatica sarebbe un giorno finito all’asta nel centro di Milano. Mercoledì 10 maggio, infatti, per la prima volta, anche un formaggio ha fatto la sua prima comparsa in una casa d’asta, la Bolaffi di Torino. Oltre al Bitto del Duca sono stati battuti anche i prodotti di altri casari, di annate differenti, per 21 lotti totali (comprese anche alcune verticali). In realtà non è poi un così grande successo: per la casa d’aste si trattava di un esperimento che, tirando le somme, si può dire riuscito  solo a metà. Vediamo in che senso.

 

 

Bene ma non benissimo. Maurizio Piumatti, amministratore di Bolaffi Aste, ha ammesso che si trattava di un esperimento azzardato: introdurre alcuni prodotti di artigianato alimentare superiore in un’asta di vini che si teneva a Milano proprio nel mese inaugurale di Expo. C’erano il prosciutto San Daniele, il Parmigiano Reggiano, l’aceto balsamico di Modena e, su consiglio di Slow Food, anche il Bitto Storico. Il risultato? Dei 21 lotti di formaggio presentati solamente nove sono stati assegnati. Complice anche, forse, la posizione finale rispetto ai quasi 500 lotti messi all’asta. La base d’asta era stata stimata intorno ai 100 euro al chilogrammo (118 per essere precisi) e si è attestata, per la maggior vendita, intorno a 167 euro al chilo. Niente di eccezionale, considerando che il momento topico di un’asta è il gioco di rilanci che fa lievitare il prezzo. Bisogna sottolineare però che si trovava un prodotto insolito per i frequentatori di questi saloni e che dunque, tutto sommato, la risposta è stata soddisfacente trattandosi di una svolta epocale, che ha presentato sul prestigioso palcoscenico dei prodotti di lusso un prodotto insolito come il formaggio.

Perché un formaggio può costare così tanto. Paolo Ciaparellli, affinatore di formaggi e Presidente del Consorzio Salvaguardia Bitto Storico, dichiara: «Certo, il Bitto storico è una cosa buona, ma ci cose buone e ce ne sono tante. Sono quelle uniche che scarseggiano». Considerato che in media vengono prodotte circa 3mila forme di Bitto storico, di queste circa 1500 vengono ogni anno raccolte nel Centro del Bitto per essere sottoposte a una rigida selezione e a un costante, amorevole controllo. Il primo anno è cruciale e si salvano solo 150 pezzi: i loro fratelli non hanno le caratteristiche per invecchiare dieci anni. Ma la selezione è ancora dura e alla fine solamente 30 forme passano raggiungono il traguardo del decennio. Trenta forme in tutto il mondo più qualche pezzo. Il risultato è centellinato e bisogna considerare che viene venduto a pezzi di uno o due etti a 10 euro al kg. Paolo, nella sua esperienza, ha stimato un prezzo che tenesse conto dell’ lunghissimo tempo, dei costi di conservazione e della fatica della produzione.

[La mappa degli alpeggi nelle valli del Bitto]

 

C’è Bitto e Bitto. Questo formaggio ha due storie da raccontare: la prima è quella millenaria, che lo vede come produzione storica delle Orobie, a cavallo tra Valtellina e Val Brembana. La seconda è quella più recente, che riguarda la “Guerra del Bitto”. Quando nel 1996 venne assegnata a questo prodotto la denominazione DOC, il disciplinare venne adeguato a normative generali che si discostavano dai metodi tradizionali, oltre ad ampliarne ingiustificatamente la zona di produzione. Fra tutti, tredici produttori “ribelli” continuarono a produrre il formaggio secondo la secolare tradizione, riunendosi nel Consorzio Salvaguardia Bitto Storico, che nel 2000 ottenne il riconoscimento come Presidio Slow Food (ovvero la concessione di una deroga alle restrittive normative di produzioni).

Oggi come secoli fa il Bitto storico viene prodotto solamente nei mesi estivi in alpeggio da bestiame costituito da vacche alpine e da capre di razza orobica. Queste si nutrono esclusivamente al pascolo alpino e gli integratori sono tassativamente vietati. Quasi tutto il lavoro è svolto con i tradizionali strumenti in legno. Dopodiché è pronto alla stagionatura che per il formaggio immortale, come è stato chiamato, non ha limiti.

E ora? Il prossimo appuntamento è a New York, in autunno, dove verrà presentata una forma che porta la data del 1996. Prima ancora che nascessero i Presidi Slow Food.

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