Come funziona il modello tedesco che piace tanto a Renzi
Sul capitolo lavoro il Presidente del Consiglio ha le idee chiare. «La Germania è un modello, non un nemico», così ha dichiarato Matteo Renzi durante la presentazione del piano “dei mille giorni” (il cronoprogramma di riforme che il Governo vuole attuare per far ripartire l’economia del nostro Paese). Si riferisce al Jobwunder, ovvero il “miracolo del lavoro” che ha consentito alla Germania di dimezzare il tasso di disoccupazione e di rilanciare il proprio welfare in meno di dieci anni. Il modello tedesco, dunque, ha funzionato: sono i dati a parlare.
Dati alla mano, tra Germania e Italia. Nel 2003 la situazione della Germania era molto preoccupante, con un tasso di disoccupazione pari al 10,5%, corrispondente a oltre 5 milioni di senza lavoro. Tra il 2007 ed il 2013 è sceso dall’8,7% al 5,3%, nello stesso periodo invece in Italia è passato dal 6,1% al 12,2%. A luglio del 2014 la Germania ha registrato un tasso di disoccupazione pari al 4,9% (il più basso d’Europa), l’Italia del 12,6%, percentuale che secondo l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è destinata a crescere fino a fine anno arrivando a sfiorare il 13%.
Nel caso dei giovani, i dati sono ancora più impressionanti: disoccupazione tedesca al 7,8% , a più del 42% nel nostro Paese. Stesso dicasi per l’occupazione femminile: 50% contro il 72% italiano. Ma a cosa si deve il risultato della Germania?
LE RIFORME HARTZ
Il modello che piace tanto a Renzi prende le mosse dalle “riforme Hartz”, attuate dal governo del socialdemocratico Schroeder. A partire dal 2003, infatti, tale governo mise in cantiere l’“Agenda 2010”, un programma di misure finalizzate ad aumentare la competitività del Paese. Alla base dell’Agenda c’erano anche alcune importanti riforme relative al mercato del lavoro, approvate in quattro fasi successive nel periodo fra il 2003 ed il 2005. Ideatore delle misure fu Peter Hartz - ex membro del consiglio di amministrazione della Volkswagen ed esperto di relazioni industriali -, allora incaricato di presiedere la Commissione tecnica delle riforme. In che cosa consiste la ricetta tedesca?
Minijob. Una delle principali innovazioni è l’introduzione dei “Minijob”, contratti di lavoro precario a bassa tassazione, che non danno diritto a pensione né assicurazione sanitaria. La retribuzione mensile massima di tali lavori non supera i 450 euro. econdo le stime sono più di 7 milioni i tedeschi che oggi svolgono un minijob e per 5 milioni di loro rappresenta l’unica forma di reddito. L’obiettivo di tali contratti è quello di far entrare nel mondo del lavoro regolare molte fasce di popolazione prima escluse (studenti, donne e immigrati).
Sussidi di disoccupazione universali. Sono stati introdotti i sussidi di disoccupazione universali, ovvero estesi a tutti o, meglio, a tutti coloro che dimostrino di essere alla ricerca attiva di un lavoro. Contemporaneamente, però, è stato reso più severo il criterio per la loro erogazione. I disoccupati, infatti, vengono sollecitati con proposte di lavoro provenienti dall’Ufficio di collocamento che, se non accettate, portano alla decurtazione progressiva delle sovvenzioni pubbliche. I sussidi di disoccupazione, che ammontano a circa il 60 percento dell’ultimo stipendio netto ricevuto, hanno una durata limitata nel tempo. Infatti, non vengono erogati per più di 12 mesi (18 per i lavoratori over 55).
Reddito minimo garantito. Le riforme Hartz hanno introdotto criteri più stringenti anche per l’indennità sociale riservata ai disoccupati di lunga data e a quelli che non hanno maturato il diritto al sussidio di disoccupazione, i quali ricevono una sorta di reddito minimo garantito. È stato, infatti, stabilito un tetto massimo per l’importo dell’assegno, pari a circa 345 euro al mese, a cui si possono aggiungere altri contributi per i figli o per gli affitti.
Uffici di collocamento riformati. Sono stati riformati gli uffici di collocamento pubblici, unificati nell’Agenzia Federale del Lavoro. L’Agenzia gestisce direttamente i sussidi di disoccupazione ed è a questa che le aziende, che hanno inviato un preavviso di licenziamento al dipendente, devono dare tempestiva comunicazione. In questo modo il lavoratore può iniziare subito un percorso di reinserimento professionale, ancor prima di diventare effettivamente disoccupato.
Sistema di formazione professionale efficiente. Le riforme hanno previsto buoni per la formazione e rafforzato il sistema dei tirocini professionalizzanti. Il sistema di formazione tedesco è, infatti, caratterizzato da un vincente connubio tra teoria e pratica. In questo modo, i giovani possono proseguire gli studi e, nello stesso tempo, fare esperienze lavorative pratiche che li rendono pronti all’inserimento nel mondo del lavoro.
Collaborazione con i sindacati. Altro punto forte del modello tedesco è la grande collaborazione con i sindacati. A questi viene attribuito, infatti, un ruolo primario che si fonda sulla Mitbestimmung, ovvero sul principio della cogestione. I rappresentanti dei lavoratori partecipano direttamente ai consigli di sorveglianza dell’azienda, costituendo parte integrante della stessa. Questo fa sì che il sindacato non sia antagonista ma compartecipe delle decisioni aziendali, comprese quelle che riguardano i licenziamenti.
Un mix vincente ma non privo di limiti. Nel mercato tedesco convivono, quindi, l’alta flessibilità del lavoro (simil modello americano) ed il modello del welfare nord-europeo (sostegno a chi dimostra di non trovare lavoro ma con regole molto stringenti). Questo mix, come visto, ha dato buoni risultati sul versante disoccupazione ed ha facilitato le assunzioni, portando il costo del lavoro a livelli così competitivi da rendere la Germania il secondo esportatore mondiale dopo la Cina.
Non solo luci, però, per il modello tedesco. Nel lungo periodo, infatti, questo sistema ha indebolito i consumi, al punto da spingere i partner dell’Unione Europea e gli USA a chiedere a Berlino di sostenere la domanda interna pagando di più il lavoro (richiesta che ha trovato risposta quest’anno nell'introduzione del salario minimo). Molto criticati, infine, anche i Minijob che, secondo alcuni, non sarebbero altro che uno sfruttamento di manodopera malpagato in cui sono intrappolati moltissimi giovani e donne ultracinquantenni.