Davvero le biro stanno scomparendo?

Come nacque la penna a sfera e in che senso ha ucciso il corsivo

Come nacque la penna a sfera e in che senso ha ucciso il corsivo
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Un articolo di Josh Giesbrecht, dal magazine statunitense The Atlantic.

 

Recentemente la Bic ha lanciato una campagna per salvare la scrittura a mano, dal nome “Fight for Your Write” (Combatti per la Tua Scrittura), include una promessa ad «incoraggiare l’atto dello scrivere a mano» nelle case e nelle comunità ed enfatizza l’inserimento delle penne a sfera dell’azienda nelle classi scolastiche. In qualità di insegnante, non ho potuto fare a meno di domandarmi come qualcuno possa pensare che ce ne sia carenza. Trovo penne a sfera ovunque: sui pavimenti delle classi di scuola, dietro ai banchi. Dozzine di biro scartate si raccolgono in tazze sulle cattedre di maestri e professori. Sono così ubiquitarie che la parola “penna a sfera” raramente viene utilizzata; si chiamano solo “penne”. Nonostante la sua popolarità, la biro è relativamente nuova nella storia della scrittura a mano e la sua influenza su di essa è più complicata di quanto la Bic possa insinuare.

La storia della creazione della penna a sfera pone luce su pochi personaggi chiave, in particolar modo sul giornalista ungherese László Bíró, oggi riconosciuto come il suo inventore. Ma, come in molte storie di geni individuali, questa nasconde una assai più lunga storia di successi ingegneristici e commerciali. Biró non fu infatti il primo a sviluppare l’idea: la pena a sfera fu originariamente brevettata nel 1888 da un conciatore di pelli americano di nome John Loud, anche se la sua idea non vide alcuno sviluppo. Nel corso delle successive decadi, dozzine di altri brevetti furono registrati per penne che usavano una sfera di qualche tipo, ma nessuno di essi raggiunse il mercato.

 

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Queste penne preistoriche non fallirono per la meccanica del loro design ma piuttosto per la scelta dell’inchiostro. L’inchiostro usato in una stilografica, precursore della penna a sfera, è meno denso in modo da facilitare un miglior flusso attraverso il pennino: metti lo stesso inchiostro in una biro, e ti troverai tra le mani con un casino che perde. L’ inchiostro fu il fattore sul quale László Bíró, lavorando con suo fratello György, chimico, fece il cambiamento cruciale: i due fratelli fecero esperimenti con inchiostri più densi, a rapida asciugatura, a cominciare da quelli utilizzati nelle macchine per la stampa dei giornali. Infine, rifinirono l’inchiostro e il design della punta a sfera al fine di creare una penna che non perdesse. (Stiamo parlando di un’era in cui una penna poteva essere grandiosa anche se qualche volta perdeva inchiostro).

Ad ogni modo, i Bíró vivevano in tempi complicati. L’autore ungherese Gyoergy Moldova, nel suo libro Ballpoint, scrisse a riguardo del volo di László dall’Europa all’Argentina per fuggire alle persecuzioni naziste. Mentre i suoi affari in Europa erano in cattive acque, registrò il brevetto in Argentina nel 1943, e iniziò la sua produzione. Il grande successo arrivò circa un anno dopo, quando la British Air Force, in cerca di una penna che funzionasse a grandi altitudini, ne acquistò trentamila. Presto i brevetti furono archiviati e venduti a varie compagnie dell’Europa e del Nord America e la penna a sfera cominciò a diffondersi in tutto il mondo.

Uomini d’affari fecero una fortuna acquistando i diritti di produzione delle penne a sfera nel loro Paese, ma uno di loro fu degno di nota in maniera particolare: Marcel Bich, l’uomo che comprò il brevetto in Francia. Bich non trasse profitto solo dalla biro; vinse la corsa per renderla più economica. Quando per la prima volta comparve sul mercato nel 1946, una penna a sfera era venduta per circa 10 dollari, l’equivalente di circa 100 dollari oggigiorno. La competizione portò quel prezzo stabilmente più in basso, ma il design di Bich lo portò sottoterra. Quando la Bic Cristal entrò sui mercati americani nel 1959, il prezzo era pari a meno di 19 centesimi a penna. Oggi la Cristal le vende a circa lo stesso prezzo, nonostante l’inflazione.

 

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Il successo universale della biro ha cambiato il modo in cui molte persone sperimentano l’inchiostro che, essendo più denso, dava meno perdite di quello dei suoi predecessori. Per molti versi, questa fu una vittoria: niente più magliette macchiate di inchiostro, nessun bisogno di protettori da smanettoni per le tasche. Comunque, l’inchiostro più denso cambiò anche l’esperienza fisica dello scrivere, e non necessariamente in senso buono.

Non avrei mai notato la differenza se non fosse stato per la mia passione per le penne insolite, che mi ha portato a comprare la mia prima penna stilografica. Una vita spesa scrivendo con la penna a sfera e minori variazioni sul tema (penne gel e rollerball) mi ha lasciato completamente impreparato alla insolita sensazione che mi ha dato l’uso della stilografica. Il suo inchiostro liquido lascia immediatamente un segno sulla carta anche con il minimo tocco della superficie. Ho cominciato a tracciare altre linee tra quelli che sembravano tratti distinti di penna. La mia mano, addestrata dalla penna a sfera, si aspettava che una minor pressione sulla penna fosse abbastanza per smettere di scrivere, ma ho scoperto ben presto che dovevo alzare la penna completamente dal foglio se volevo raggiungere quell’obiettivo. Una volta cominciato a mettere in pratica questi accorgimenti, fu come una manna dal cielo; una minore pressione sulla pagina significava un minore sforzo per la mia mano.

La mia penna stilografica è una di quelle moderne, e probabilmente non è una di quelle rappresentazioni perfette delle penne degli anni Quaranta, ma ha ancora alcuni dei problemi che hanno tormentato la penna stilografica e il più antico calamaio. Devo stare attento a dove faccio riposare la mia mano sulla carta per il rischio di strisciare la mia ultima e non-ancora-asciutta linea facendola diventare una macchia illeggibile. E dal momento che l’inchiostro meno denso fluisce più velocemente, devo riempire la penna frequentemente. La penna a sfera risolveva questi problemi, dando agli scrittori una penna più durevole e libera dal rischio di sbavature al solo costo di una maggior pressione da parte della propria mano.

 

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In qualità di insegnante i cui alunni lavorano spesso con numeri e computer, la scrittura a mano non rappresenta la mia prima preoccupazione, diversamente da quanto accade a molti dei miei colleghi. Ogni tanto mi capita però di imbattermi nell’ennesima storia sul declino della scrittura a mano. Inevitabilmente, questi articoli si concentrano su come la scrittura sia oggi sostituita da nuove forme di comunicazione digitali: mandare sms, digitare, usare Facebook o Snapchat. Discutono sulla cancellazione delle lezioni di pratica di scrittura, che sono ora convertite in lezioni di battitura o dattilografia. Lo scorso anno, un articolo del New York Times – poi ripreso dalla campagna di Bic “Fight for Your Write” – riportava uno studio eseguito grazie alla risonanza magnetica funzionale che evidenziava come lo scrivere a mano rappresentasse una miglior tecnica di apprendimento rispetto alla digitazione.

Non riesco a ricordarmi quale sia l’ultima volta in cui ho visto uno studente prendere appunti su carta durante una mia lezione, ma ricordo chiaramente studenti che controllano i loro smartphone (frequentemente e spesso). Nella sua storia della scrittura a mano The Missing Ink (L’inchiostro mancante), Philip Hensher ricorda il momento in cui ha realizzato che non aveva idea di come fosse la calligrafia del suo migliore amico. «Non mi era mai sembrato strano prima di allora... saremmo potuti andare avanti così per sempre, senza nemmeno notare che non avevamo più bisogno di scrivere».

Di certo il significato di "scrivere a mano" può variare. I nostalgici di questa pratica non si riferiscono solitamente ad alcuna esplicita forma grafica creata da penna e inchiostro. Piuttosto parlano della fluidità della connessione delle lettere del metodo Palmer, che dominò la pedagogia di primo e secondo grado per buona parte del ventesimo secolo. (Oppure stanno semplicemente bramando un passato che non hanno mai neanche vissuto, pensando agli angoli acuti della scrittura Spencerian del 1800). Nonostante la proliferazione degli elogi alla scrittura a mano, sembra che nessuno stia realmente mettendo in discussione il fatto che tutti, di fatto, scrivano ancora: tendiamo semplicemente ad usare la stampa di caratteri distaccati tra loro rispetto alla fuidità del metodo Palmer, e la usiamo meno spesso.

Provo sentimenti contrastanti rispetto a questo tema. Mi ha fatto male vedere uno studente totalmente incapace di leggere una calligrafia. Ma anche la mia stessa scrittura si è trasformata da uno stile Palmer a uno “stampato” poco dopo essere entrato al college. Come molti dei cambiamenti graduali di abitudini, non so esattamente ripercorrere come questo accadde, anche se ricordo che il cambiamento avvenne in un periodo in cui avevo regolarmente bisogno di copiare a mano risme di appunti delle lezioni di matematica e ingegneria.

Nel suo libro Teach Yourself Better Handwriting (Insegna a te stesso una migliore calligrafia), l’esperta di scrittura a mano e designer di caratteri Rosemary Sassoon nota che «la maggior parte di noi ha bisogno di un modo flessibile di scrivere, quasi uno scarabocchio veloce che serva solo a noi e uno progressivamente più lento e leggibile quando sono gli altri a dover leggere». Confrontando la stampa a caratteri staccati dalla scrittura a caratteri uniti, l’autrice sottolinea come «lettere separate possono raramente essere veloci come quelle scritte a mano». Così, se la scrittura a mano è più veloce, perchè dovrei sostituirla in un momento in cui ho essenzialmente bisogno di scrivere più rapidamente? Dato il periodo di tempo che passo al computer, sarebbe facile per un osservatore esterno supponente, inserire la mia calligrafia tra le vittime della tecnologia. Ma io ho conosciuto la scrittura a mano, l’ho usata per tutto il liceo e l’ho abbandonata proprio quando stavo scrivendo di più.

La mia esperienza con la penna a sfera può suggerirci però una nuova chiave di lettura. Forse non è stata la tecnologia digitale ad ostacolare la mia scrittura a mano, ma il tipo di strumento con cui ero abituata a scrivere. Le penne stilografiche vogliono connettere le lettere. Le penne a sfera hanno bisogno di essere convinte a scrivere, di essere premute sulla carta piuttosto che solamente appoggiate e le matite numero due che usavo per gli appunti di matematica non rappresentavano comunque una svolta, dal momento che richiedevano la stessa pressione di una penna a sfera. In più, la tecnologia digitale non ha preso piede finchè la penna stilografica non aveva già intrapreso il suo declino e la penna a sfera la sua crescita. La biro divenne popolare circa nello stesso momento dei computer.

L’analisi di Sassoon su come ci insegnano a tenere in mano le penne costituisce una buona prova di come esse siano state responsabili del declino del corsivo. Ci spiega come il tipo di impugnatura insegnato nelle scuole elementari contemporanee sia la stessa che è stata insegnata per generazioni, molto tempo prima che tutti usassero le biro. Comunque, scrivere con le penne a sfera e altre penne moderne richiede che esse siano posizionate con un angolo maggiore rispetto al foglio – posizione che generalmente risulta scomoda con una penna tradizionale. Ancora prima che le tastiere dei computer causassero così tante sindromi del tunnel carpale, la penna a sfera stava già mettendo alla prova generazioni di mani e polsi.

Questo è quello che ci dice Sassoon: «Dobbiamo trovare nuovi modi per tenere in mano le penne moderne in modo da poterle utilizzare senza avere dolore … dobbiamo anche incoraggiare l’uso di una scrittura che si addica alle nuove biro. Se non faremo qualcosa di tangibile per la scrittura e l’impugnatura contribuiremo alla scomparsa della scrittura a mano allo stesso modo dei computer».

Mi domando quante altre abilità ordinarie, formatesi sull’uso di oggetti ormai fuorimoda, persisteranno oltre la loro utilità. Non è una novità che gli studenti fossero abituati a scrivere con penne stilografiche, ma pochi di noi sanno quale sia l’esperienza tattile di scrivere con una di esse. Senza quell’esperienza, è facile continuare a portare avanti abitudini passate senza fermarsi a notare che l’azione non è più adatta a quell’oggetto. Forse quello di salvare la scrittura a mano è più un processo di riscoperta dell’uso storico di tecnologie comuni volto alla comprensione di quelle contemporanee che una mera questione di nostalgia. Se non realizziamo questo, ci sarà difficile capire quali sono le abitudini che vale la pena tramandare e quali invece sono solo vestigia di circostanze ormai superate.

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