Cosa ha chiesto il Papa ai vescovi con quell'«andate controcorrente»

Si diceva un tempo: lo stile è l'uomo. Papa Francesco ha uno stile. È quello che rende i suoi testi così diversi da tutti quelli che lo hanno preceduto almeno da qualche secolo a questa parte.
Prendiamo l’esordio del discorso in apertura dei lavori della 68ª Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.) lunedì scorso. Cosa c’entrava che si ricordasse del Vangelo di Marco letto durante la messa, quello della Maddalena che va al sepolcro la mattina di Pasqua? E invece ha detto: «Quando io sento questo passo del Vangelo di Marco, io penso: ma questo Marco ce l’ha con la Maddalena! Perché fino all’ultimo momento ci ricorda che lei aveva ospitato sette demoni». Il brano sta infatti alla fine (quasi) di quel Vangelo, e dunque stare ancora a ricordare cos’era stata prima quella donna sembra davvero un gesto di scortesia nei suoi confronti. E già questo fatto colpisce, perché indica un modo di leggere il vangelo che non è consueto. Difficilmente si sta attenti a come gli evangelisti trattano i loro personaggi: Francesco lo fa. E però prosegue: «Ma poi penso: e io quanti ne ho ospitati? E rimango zitto». Per dire: sono anche io come la Maddalena, è bene che qualcuno me lo ricordi.
Iniziare così un incontro coi vescovi non è male. Significa: so di non essere migliore di voi. Parliamoci da uomini, cioè da peccatori quali siamo. Dopo di che propone l’argomento essenziale: cosa ci stiamo a fare noi vescovi, in questo momento e in Italia. E si risponde: «La nostra vocazione cristiana ed episcopale è quella di andare contro corrente: ossia di essere testimoni gioiosi del Cristo Risorto per trasmettere gioia e speranza agli altri». Controcorrente perché il quadro della situazione appare «realisticamente poco confortante». Cosa devono dunque fare i vescovi, essenzialmente? «Consolare, aiutare, incoraggiare, senza alcuna distinzione, tutti i nostri fratelli oppressi sotto il peso delle loro croci, accompagnandoli, senza mai stancarci di operare per risollevarli con la forza che viene solo da Dio». “Andare contro corrente” significa dunque, prima di tutto, andare contro se stessi, cioè contro la tendenza a lasciarsi andare alla tristizia dei tempi. Il compito dei vescovi? Continuare a sperare contro ogni evidenza realistica.
Non male, neanche questo. Perché sembra, soprattutto dal seguito, che il Papa abbia passato diverse ore ad ascoltare le repliche registrate delle messe domenicali su rai 1 e rete 4, nel corso delle quali i celebranti - spesso vescovi - appaiono di una mestizia tale che conforto alla gente (né a quella che hanno lì in chiesa, né quella davanti alla tv) non ne viene proprio neanche una briciola. Un disastro, quelle messe. Per parafrasare il Papa: sono «come un pozzo secco dove la gente non trova acqua per dissetarsi».




Segue l’accenno a interrogativi e preoccupazioni nate - ha cura di sottolineare il papa - «da una visione globale - non solo dell’Italia, globale - e soprattutto dagli innumerevoli incontri che ho avuto in questi due anni con le Conferenze Episcopali». Insomma: siamo qui per aiutarci a venir fuori da una situazione pesante. Non mettetevi adesso a pensare che ce l’ho con voi. Vi prego. Parliamoci fra vescovi dotati di una certa qual «sensibilità ecclesiale», che significa essere umili, capaci di carità, saggezza, concretezza.
E così prosegue in un modo che sembra, ancora una volta, che abbia passato parecchio tempo a leggere i comunicati dei vescovi a proposito delle situazioni più tremende del nostro tempo, soprattutto la corruzione dilagante. E li definisce, quei comunicati, «timidi o irrilevanti». Per dire: roba che passa via senza che nessuno se ne preoccupi. Dunque: quando facciamo un comunicato, bisogna che bruci, che scortichi i ladri, i corrotti, i cattivi maestri. Altrimenti passiamo per vigliacchi che temono ritorsioni. E poi un passo che fa di Francesco la voce stessa di noi poveri fedeli. Quando prepariamo un documento - non dice “i vostri”, dice “i nostri” documenti - cerchiamo di non far «prevalere l'aspetto teoretico-dottrinale astratto, quasi che i nostri orientamenti non siano destinati al nostro Popolo o al nostro Paese - ma soltanto ad alcuni studiosi e specialisti - invece dobbiamo perseguire lo sforzo di tradurle in proposte concrete e comprensibili». Propongo - da sessantottino di riserva - di apporre dei Tatze-bao con questa frase su tutte le chiese d’Italia. Metterla nei titoli delle messe domenicali alla tv, prima del nome del regista e della squadra esterna rai o mediaset. Vogliamo documenti che ci servano. Prediche che ci facciano capire che chi parla ha davanti delle facce, le nostre.
E il papa darebbe ragione a quanti si unissero a questa proposta perché dice, subito dopo, che «i laici che hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del Vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo!». Cioè, amici vescovi, ci siamo capiti: i monsignori hanno fatto il loro tempo. I laici hanno essenzialmente - tutti - «la necessità del Vescovo Pastore!». Hanno bisogno di un riferimento paterno, di un conforto sicuro, di non vedersi segati se si sono mossi senza «un input clericale». Francesco: sei tutti noi.
E poi, altro aspetto non da poco: c’è bisogno che i vescovi siano più uniti tra loro (collegialità) «sia nella determinazione dei piani pastorali, sia nella condivisione degli impegni programmatici economico-finanziari». In altre parole: quando fate un programma, non limitatevi a proclamarlo. Chiedete ai vostri fratelli che vi aiutino a verificarne i risultati. E qui c’è la perla delle perle: «ad esempio, si organizza un convegno o un evento che, mettendo in evidenza le solite voci, narcotizza le Comunità, omologando scelte, opinioni e persone. Invece di lasciarci trasportare verso quegli orizzonti dove lo Spirito Santo ci chiede di andare». Sempre i soliti monsignori che parlano, sempre i soliti incaricati della pastorale che ripetono le loro cose: non va bene. Stiamo attenti, sembra aver voluto dire il papa, a non fare un convegno sui giovani e lo sport proprio nelle ore in cui gioca l’Italia o l’Atalanta. Si rischia la famosa irrilevanza. Ascoltate voci diverse, portatrici di esperienze rischiose, magari.
E infine un accorato appello a non lasciare «invecchiare così tanto gli Istituti religiosi, Monasteri, Congregazioni, tanto da non essere quasi più testimonianze evangeliche fedeli al carisma fondativo». Insomma: congregazioni che oramai sono fatte solo più di tre monache ottantenni, monasteri di due frati inabili a salire i gradini dell’altare, suore dai nomi impossibili testimoni del tempo che fu: «Perché non si provvede ad accorparli prima che sia tardi sotto tanti punti di vista? E questo è un problema mondiale». Appunto, perché non si provvede?