Il test del Dna: che cos’è e quanto è affidabile
Il genoma di interi paesi schedato, la riesumazione di un cadavere, la scoperta di figli illegittimi, la prova finale. Il caso Yara Gambirasio sembra l’ennesimo che potrebbe essere risolto grazie al test del DNA. Ma come funziona esattamente? E quanto è attendibile?
Cos’è. Ogni individuo eredita il proprio patrimonio genetico al 50% dal padre e al 50% dalla madre. Il DNA profiling, o impronta digitale genetica, oggi può addirittura ricostruire il volto di una persona partendo dai campioni di codice genetico. Anche se esistono varie tecniche, la maggior parte dei test si concentra su particolari sequenze di DNA chiamate microsatelliti: sono zone (in gergo scientifico loci) del genoma in cui si ripete molte volte una stessa sequenza di due-cinque lettere (le lettere sono A, C, G, e D e corrispondono alle quattro basi nucleotidi adenina, citosina, guanina e timina). Le sequenze in sé non hanno un ruolo importante. Ciò che conta è che la lunghezza di queste zone ripetitive cambia in modo casuale da individuo a individuo. E quindi costituisce un tratto di unicità.
Come funziona. Il test del DNA si effettua attraverso l’analisi di cellule del corpo umano. Le più adatte sono quelle del sangue o della mucosa della bocca (saliva). Ma qualsiasi traccia biologica rinvenuta sulla scena del crimine (capelli, saliva, sangue, liquido seminale) consente un test adeguato. Se correttamente conservate, le tracce biologiche possono essere analizzate anche a decine di anni di distanza.
Una volta serviva una grossa goccia di sangue per risalire ad un profilo genetico preciso. Oggi bastano dieci cellule. Questo progresso scientifico ha permesso di risolvere casi passati di criminologia che disponevano solo di campioni di cellule molto piccole. Ad esempio il delitto Olgiata, legato all’omicidio della contessa Alberica Filo Della Torre (Roma, 1991), rimasto irrisolto per vent’anni, fino a quando la scienza ha consentito di analizzare un campione ridottissimo di DNA e ha individuato l’assassino nel cameriere filippino Manuel Winston. Che poi ha confessato.
Quanto è affidabile. Il test del DNA ha una probabilità di efficacia maggiore del 99%. Il 100% non si raggiunge solo per ragioni matematiche, dato che la metodologia di analisi è realizzata su base statistica. E la probabilità che due profili genetici di due individui diversi coincidano è dello 0,0000000000001%. Praticamente inesistente.
Ci sono, comunque, alcuni fattori che possono indebolire l’efficacia dei risultati.
In primo luogo, qualche eccezione genetica. Esistono persone con lo stesso DNA: i gemelli monozigoti, che, in Europa, sono lo 0,2% della popolazione. Ci sono poi rari casi di persone nate dalla fusione di più embrioni, le cosiddette chimere, che hanno più di un codice genetico nel corpo, e questo potrebbe complicarne l’analisi. Infine, in alcune zone dove i matrimoni tra consanguinei sono frequenti, l’efficacia del test diminuisce perché diventa più probabile la somiglianza fra DNA di individui diversi. Ma sono casi rari.
Il punto debole del test sta nella raccolta e nell’analisi dei dati. Escludendo i casi in cui il laboratorio di profiling possa avere personale poco competente o scelga di falsificare addirittura i risultati, bisogna prestare attenzione al metodo di raccolta del DNA sulla scena del crimine. Il tampone utilizzato deve essere assolutamente incontaminato. Cioè, non portare già, prima ancora di essere sul luogo del delitto, altre tracce di DNA. Si rischia di incorrere, altrimenti in casi bizzarri, come quello del Fantasma di Heilbronn, dove la stessa misteriosa assassina sembrava coinvolta in 40 casi in mezza Europa, salvo poi scoprire che erano i tamponi usati a portare il suo codice genetico ovunque.
Basta la prova del DNA? Il test del DNA viene riconosciuto come prova, e non soltanto come indizio, dalla legge: la Corte di Cassazione penale, nel 2004, ha dichiarato che «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma secondo». Tuttavia, non può essere utilizzato come unica prova. Nel caso di Yara Gambirasio, le prove aggiuntive sarebbero quella del cellulare di Bossetti e della calce trovata nei polmoni della ragazzina.
Chi l’ha inventato. Trent’anni fa, tra il 1984 e il 1985, presso l’Università di Leicester in Inghilterra, lo scienziato Alec Jeffreys e i suoi collaboratori scoprirono che il DNA umano poteva essere utilizzato per l’identificazione degli individui. E inventarono le tecniche del DNA profiling e dell’analisi delle impronte digitali.
E in America? Basta guardare una puntata di CSI per capire quanto sia importante, nelle indagini americane, il reparto di criminologia scientifica. E quanto sia schiacciante, tra le prove, quella del test del DNA. Negli USA esiste anche una banca dati del DNA. L’ha creata l’FBI e raccoglie i campioni genetici di tutti coloro che hanno già avuto precedenti penali. Negli States, il test del DNA viene utilizzato non solo per definire la colpevolezza, ma anche per scagionare condannati, che possono chiedere di sottoporsi al test: se non corrisponde, qualche volta riescono a salvarsi dalla pena di morte. Finora sono stati 250.
Altri utilizzi. Il test del DNA viene utilizzato anche nel riconoscimento della paternità. Oppure per identificare le vittime di un disastro, i cui corpi non siano più riconoscibili. Questo metodo è stato utilizzato, ad esempio, nell’ottobre 2001, per determinare l’identità delle vittime dell’incidente aereo di Linate, rese irriconoscibili dall’incendio.