Molte fedi sotto lo stesso cielo

Cos'hanno detto Ichino e Saraceno sulla questione delle pensioni

Cos'hanno detto Ichino e Saraceno sulla questione delle pensioni
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Il problema della spesa sociale italiana sono le pensioni: questo è l’esordio del giuslavorista Pietro Ichino e della sociologa Chiara Saraceno di venerdì sera al Liceo Mascheroni all’interno della rassegna Molte fedi sotto lo stesso cielo. Ciò non significa che il problema dello stato assistenziale o welfare state sono le pensioni in sé, quanto piuttosto il pensiero alla base: abbiamo guardato per troppo tempo allo stato sociale esclusivamente come «la cassa dei fondi per il pensionamento» senza creare altri sussidi specifici per i più bisognosi.

Saraceno su questo è molto chiara: «La spesa sociale è orientata verso le pensioni perché si dà per scontato che la responsabilità del vero welfare, inteso come forma di assistenzialismo, cada sulle famiglie». La povertà non sarebbe dunque un problema dello Stato: «Quante volte capita di sentirsi domandare in assistenza sociale se si ha un parente che possa provvedere per noi?». Questo però senza tenere conto che la società ha abbandonato il modello patriarcale del cosiddetto male breadwinner, l’uomo che porta a casa il pane. La situazione varia moltissimo da famiglia a famiglia, ma non solo: anche al suo interno ci sono grandi differenze di reddito. Per questo è impensabile che si occupi di tutto.

 

 

Tuttavia il problema non è tutto italiano. Questa interpretazione è stata adottata da molti Paesi, spiega Ichino, ma il punto è che in Italia ce ne siamo resi conto troppo tardi, quando il problema è diventato enormemente difficile da gestire: «Abbiamo mandato in pensione persone anche dopo undici anni di lavoro». Ma il problema centrale non è questo, quanto piuttosto la logica sottostante, ossia «la considerazione sbagliata che andare in pensione prima fosse un modo per far posto ai giovani». A livello microeconomico, cioè all’interno dell’azienda, sarà pur vero, ma se si guarda al piano nazionale non è così: «Le ricerche hanno dimostrato che i paesi in cui si lavora più a lungo sono quelli con l’occupazione giovanile più alta». Questo non significa ovviamente che basta mandare tutti in pensione più tardi, anche se l’età media del pensionamento in Italia è di 62 anni e negli altri Paesi europei di 64. È necessario quindi ristrutturare il welfare, ma come?

Ichino e Saraceno hanno le idee molto chiare a riguardo, anche se si articolano in posizioni talvolta differenti. Entrambi sono d’accordo che il welfare debba badare a chi ha realmente bisogno e dargli molto di più di quanto non gli si dà ora. Anche per le pensioni, precisa Ichino, perché si deve accettare l’adeguamento dell’età pensionistica in base all’aumento dell’aspettativa di vita, che però non deve essere indiscriminato: «Concediamo l’anticipo a chi ne ha bisogno: un muratore non può stare sulle impalcature fino a 67 anni e per un impiegato del catasto non è un’emergenza sociale lavorare cinque mesi in più».

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Sul sussidio di disoccupazione i due sono concordi: «Si tratta del principio cardine della società moderna perché è una garanzia di continuità del proprio reddito. Questa sicurezza permette di investire con lungimiranza, ad esempio sull’istruzione dei propri figli». Ma questo sussidio non deve diventare «uno strumento di deresponsabilizzazione» come ad esempio quando ci si avvale della cassa integrazione per anni: «Alle Case di Cura Riunite di Bari ci sono lavoratori in cassa integrazione da ventidue anni».

La strada da intraprendere è quella di un «welfare attivante», spiega Ichino, in base al quale il lavoratore disoccupato riceve dallo Stato un assegno di ricollocamento che ha il dovere di utilizzare per avviare un percorso di formazione con un operatore accreditato, come succede in Olanda: «Se non si è ricollocati al termine del percorso il voucher non viene sbloccato e l’azienda non viene pagata. Così si crea un equilibrio che responsabilizza ogni protagonista». Il problema di fondo però è che le Regioni non hanno voluto creare sistemi di controllo per certificare l’attività degli operatori.

 

 

È uno dei problemi più grandi ma assente dal dibattito politico, spiega Chiara Saraceno. Soldi che si sarebbero potuti destinare a queste misure sono stati spesi in misure inefficaci, come il bonus degli ottanta euro. «Abbiamo bisogno di un sistema assistenziale che restituisca dignità alle persone senza considerarli come scarti che si devono accontentare. Se davvero volessimo promuovere pari opportunità per tutti dovremmo cominciare dall’educazione, perché non è ammissibile che ci siano discriminazioni a livello territoriale. Il figlio di genitori senza la licenza media e cresciuto al sud perde l’equivalente di due anni di sviluppo cognitivo rispetto al figlio di laureati al nord: il suo destino è segnato perché questo divario non farà che accentuarsi nel tempo». E come sempre a pagare sono i più svantaggiati.

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