Un pensiero al migliore

E datelo 'sto Nobel a Philip Roth! (nulla togliendo a Kazuo Ishiguro)

E datelo 'sto Nobel a Philip Roth! (nulla togliendo a Kazuo Ishiguro)
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Foto in copertina di Julian Hibbard

 

Partiamo dagli aspetti positivi. L’anno scorso era andata peggio: un Nobel per la letteratura piovuto dal cielo a Bob Dylan che lo ha accolto come se fosse stato una sassata sulla fronte. Lo ritiro, non lo ritiro, non rispondo al telefono, forse settimana prossima, insomma: in pieno stile da sciagurata gatta morta, ci ha fatto perdere un anno. Grande cantonata dell’Accademia, la lezione che anche i migliori sbagliano. Col problemino che se prendi un granchio ad assegnare il Nobel per la fisica se ne accorgono in quindici, se azzardi quello per la letteratura e il vincitore fa pure il capriccioso, viene fuori un putiferio mai più finito.

 

 

Ishiguro, meritato senz'altro. Quest’anno siamo ritornati al Nobel classico, al romanziere puro, al narratore di professione. Il nome è Kazuo Ishiguro. Fra i suoi romanzi più noti ricordiamo Quel che resta del giorno, Non lasciarmi, tutti pubblicati da Einaudi. L’annuncio arriva da una elegantissima Sara Danius riconosce a Ishiguro «romanzi di grande forza emotiva, in cui l’autore ha scoperchiato l’abisso sotto il nostro illusorio senso di connessione con il mondo» e lo definisce un mix fra Jane Austen, Franz Kafka e Marcel Proust. La scrittura di Ishiguro è un meraviglioso esempio di chiarezza e limpidità talmente perfetta nella sua sincerità da rivelarsi feroce, perché ci rivela così schiettamente, con uno stile narrativo controllatissimo, il torbido e il tormento che si agita negli animi dei suoi personaggi, sotto una superficie narrativa così misurata e perfetta. E Ishiguro si merita sentite congratulazioni.

 

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Il Leonardo di Caprio del Nobel. Ma il pensiero va a Lui. Al migliore. Al Leonardo Di Caprio del Nobel, a quello che entra Papa e esce cardinale tutti gli anni, Signore e Signori, Sua Maestà Philip Roth. Accademici di Svezia, Kazuo è un bravo giovine e un paio di romanzi li abbiamo letti volentieri, ma Philip! Philip scrive romanzi interi in cinque righe, ti lascia così intontito in certi passaggi che non sai se posare il libro e prenderti una pausa di riflessione di un paio d’ore oppure scolarti in un’unica session notturna - domenicale - mentre il capo in ufficio non vede (monito: negare sempre) la storia fino in fondo. Philip ha fatto venire voglia di sottolineare ai più incalliti obiettori di coscienza per la salvaguardia dell’integrità dei volumi, e ha fatto rinunciare i più impuniti sottolineatori imbrattatori (vandali sciamannati!) all’impresa di evidenziare le parti più belle, perché si iniziava al primo rigo di pagina uno e si finiva in fondo senza staccare la matita. Philip nelle sue opere non ha parlato di noi, ha parlato a noi. E tutti gli anni hashtag, sondaggi, toto Nobel e lui è sempre lì e i lettori ci credono, e sfogliano i libri che hanno già letto e vai di citazioni, di stralci ed è normale pensare «Se non a lui, a chi?». E invece, nulla. Un altro nome, più o meno (in)degno.

 

 

«Scrivere è avere torto». Una delle cose più belle, Philip l’ha detta in un’intervista: «Scrivere è avere torto tutto il tempo. Si passa il tempo a buttar giù parole sbagliate, frasi sbagliate, storie sbagliate. Ci si sbaglia in continuazione, si fallisce continuamente e si vive in una frustrazione perpetua. Si passa il tempo a dirsi: questo non funziona, devo ricominciare». La stessa cosa l’ha ripetuta in Pastorale Americana: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati». Scrivere e vivere, per Philip Roth, sono la stessa cosa. Sbagliare come unica alternativa all'immobilità. Imperfezione, sbavatura, l'unica soluzione. Se dite di aver letto qualcosa di più bello scritto negli ultimi vent’anni, o mentite o siete Bob Dylan.

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